Manon Lescaut di Giacomo Puccini torna al Teatro alla Scala di Milano dopo più di vent’anni di assenza. Come già per la Madama Butterfly del 2016, il direttore musicale Riccardo Chailly, proseguendo la sua perlustrazione del repertorio tardo ottocentesco, ci propone una riscoperta. L’opera viene infatti presentata nella prima versione andata in scena al Teatro Regio di Torino il 1° febbraio 1893, sulla cui partitura Puccini continuerà ossessivamente ad accumulare correzioni e varianti fino alla morte, nel 1924, tanto che se ne contano otto versioni. Tra quella proposta da Chailly (basata sull’edizione critica di Roger Parker del 2012) e quella di repertorio (quella del 1915 che accoglie le modifiche predisposte per l’esecuzione al Teatro Coccia di Novara e i successivi suggerimenti di Arturo Toscanini) le differenze non sono moltissime.

«LA PIÙ significativa – dice Chailly – è alla fine del primo atto. Alla notizia che Manon e Des Grieux sono fuggiti, dopo un grande accelerando, seguito da uno scoppio, si sviluppa un Largo sostenuto con una sovrapposizione tra solisti, coro e orchestra sconvolgente, caratterizzata da una complessità ritmica modernissima. L’ossessione wagneriana, testimoniata dalla impegnativa scrittura orchestrale, si manifesta pienamente nel secondo atto con il Tristan-Akkord, che è come un serpente sotterraneo. Denota la sensualità dell’amore tra Manon e Des Grieux. Dopo la grande romanza del quarto atto ’Sola, perduta e abbandonata’, quando lei dice ’no, non voglio morire’, che qui è ripetuto più volte, c’è un piccolo intermezzo sinfonico, come un commento orchestrale lacerante». Insomma, i musicologi e i pucciniani della prim’ora troveranno primizie qua e là, dopo essersi però fatti largo tra i volumi un po’ spinti di un’esecuzione insolitamente chiassosa per Chailly, che ci ha abituato a ben altre finezze.
Nei panni della protagonista troviamo Maria José Siri, che ha trionfato tre anni fa nella Butterfly e l’anno scorso in Francesca da Rimini di Zandonai e qui conferma il suo autentico talento pucciniano: la voce francamente lirica, timbrata, sfogata nel registro acuto e non prima di risonanze in quello grave, le permette di scolpire una Manon che riesce a imporsi, eccitando e commuovendo, nonostante l’idiozia registica di David Pountney, dal quale era già stata con maggior frutto diretta nella Francesca.

TUTTO in questa regia è fuori luogo e affossa la cantante, facendo pensare a una beata incoscienza o a un dolo deprecabile: la duplicazione iniziale del personaggio in una ragazzina filiforme, le goffe acrobazie sessuali in treno, la scena della pesa delle prostitute al porto, tutto baratta il vuoto assoluto di idee del regista con l’insistita assenza del presunto physique du rôle della cantante. La quale, in verità, in spregio a stereotipi estetici indegni del terzo millennio, ben diretta e abbigliata può far faville attoriali, come ci ricorda la sua Butterfly, bella e sensuale comme il faut. Peccato, perché le scene di Leslie Travers sono magnifiche. Il Des Grieux di Marcelo Álvarez ha il fiato corto e grida tutto il tempo, a detrimento di un timbro ancora bello. Decorosi il Lescaut di Massimo Cavalletti e il Geronte di Carlo Lepore.