Bisogna dire grazie all’eccellente lavoro di Reading Bloom e quindi della sua creatrice, Maria Letizia Gatti, perché di questi tempi non è affatto facile portare sui grandi schermi italiani un cinema come quello di Shirley Clarke (1919-1997) – in generale, per usare un eufemismo, non è facile fare quello che lei fa, la distributrice di un cinema del genere in un sistema come il nostro.

La proiezione romana di Ornette: Made in America (1985), film-ritratto che Clarke ha dedicato al grande jazzista, può essere l’occasione per un inizio di recupero di tutto il cinema di una filmmaker formidabile, un grande sguardo e una grande voce del cinema sperimentale e indipendente americano – da questo punto di vista bisogna seguire il lavoro di Reading Bloom, dal momento che sta progressivamente programmando la (ri)distribuzione di quasi tutti i film della Clarke, operazione che vede a monte il progetto curato da Milestone Film, con cui la società di Gatti collabora: www.projectshirley.com – l’unico film escluso dal progetto di restauro e ridistribuzione è The Cool World (1963), prodotto da Frederick Wiseman. Fra i lavori che saranno e torneranno in circolazione ci saranno quindi quelli più noti, come Portrait of Jason (1967), ma anche quelli meno noti, come – per esempio – Brussels Loops (1958).

Il film su Coleman è estremamente interessante. Per gli appassionati del musicista sarà l’occasione di vedere e sentire il genio americano in diversi contesti spaziali (la sua città natale, Fort Worth in Texas; New York City; Nigeria, Marocco) e momenti temporali (il film ebbe problemi di produzione, la sua gestazione è durata circa una ventina d’anni). Ma il film è soprattutto una occasione per conoscere il musicista per chi ne sa poco o nulla, come a suo tempo disse la stessa autrice al Los Angeles Times: «Ornette is not violently well known (outside the jazz world) and that had something to do with my choosing to make a film that could appeal to people who just want to see this kind of film making and don’t have to know it’s about Ornette.»

All’origine dell’incontro fra i due – metà anni Sessanta – pare ci sia stata la mediazione di Yoko Ono. Per Clarke, uno dei temi iniziali di interesse sembra essere stato il rapporto tra Coleman e suo figlio Denardo, soprattutto la decisione di usarlo come batterista del suo gruppo all’età di 11 anni. Poi, i problemi produttivi furono uno dei motivi che spinsero l’autrice a lasciare il progetto e iniziare a lavorare con il video, scoprendone le potenzialità. Ma nel 1983, il ritorno di Coleman a suonare nella sua città natale – una esecuzione della sua sinfonia Skies of America – funzionò come un richiamo. Lo stesso musicista suggerì infatti alla produzione che curava l’evento dell’esecuzione di contattare Clarke, per riprendere e finire quanto fatto.

Nel vedere il film si scopriranno quindi piani diversi del racconto così come materiali eterogenei. Quello che sorprende è la libertà di impostazione e il tono affettuoso. Quello che rimane è l’immagine di un genio costruttore di mondi sonori come fossero architetture, tanto inventive quanto eleganti – l’interesse di Coleman per l’opera di Buckminster Fuller parla chiaro. In tutto questo, Clarke si dimostra come una ritrattista con pochi eguali. Sembra come se dicesse che l’arte del ritratto, al cinema, non vuol dire illustrazione, ma necessariamente altro. Una questione di studio? Il paragone forse è un po’ forzato, ma il suo film potrebbe essere letto, in parte, alla fine, come una specie di antropologica «storia di vita.»

La programmazione dei film di Shirley Clarke che si potranno progressivamente vedere in Italia e in Svizzera grazie a Reading Bloom è, per ora, la seguente. Si inizia con Ornette: Made in America all’Apollo Undici a Roma, il 26 febbraio – la proiezione sarà introdotta da Antonia Tessitore e Pino Saulo di Battiti/Radio3. Il film sarà poi al Cinema Beltrade (Milano), dal 2 marzo; al XXI Festival di cultura e musica jazz di Chiasso, l’11 marzo; al Museo Nazionale del Cinema (Torino) e al Boldini Sounds Jazz (Ferrara), il 27 marzo; al Cinema Arsenale (Pisa), il 30 aprile. The Connection (1961) sarà invece al Boldini Sounds Jazz di Ferrara il 17 aprile; poi a Genova al Teatro Altrove e al Centro Culturale Chiasso (date ancora da stabilirsi). Bridges-Go-Round e Brussels Loops, opere del 1958 (proiezioni con musica originale dal vivo di Maria Teresa Soldani), saranno al FilmForum (Gorizia), il 28 febbraio; a Cinemazero (Pordenone), il 2 marzo; al Cinema Arsenale (Pisa), il 17 maggio.

La Reading Bloom

Tra le nuove società che distribuiscono film, Reading Bloom (www.readingbloom.com) è una realtà da tenere d’occhio. Abbiamo incontrato la sua instancabile e vulcanica creatrice, Maria Letizia Gatti, per saperne di più di questa sua bella avventura.

Ci parli di Reading Bloom?

Reading Bloom è una casa di distribuzione cinematografica che promuove documentari, film saggi e opere sperimentali di particolare interesse artistico e culturale. Il progetto nasce nel 2016 dall’incontro con Ross Lipman, che è un archivista di Los Angeles specializzato nel restauro di pellicole indipendenti come Shadows di Cassavetes, e con Milestone Film, società di distribuzione che ha avuto tra gli altri il merito di riscoprire i film di Shirley Clarke e Charles Burnett.

Perché questo nome?

È un omaggio a Joyce, Beckett e Wilde, tre straordinari autori dell’epoca moderna che hanno frequentato, in modo paradossale, «l’inutilità dell’arte».

Com’è fare distribuzione in Italia?

La distribuzione è un anello essenziale tra produzione e esercizio, al servizio dell’autore e dello spettatore. Di fatto, però, anche le sale d’essai sono restie a tenere un film indipendente per più di una o due proiezioni. Le ragioni sono molteplici, una su tutte l’oligopolio economico e ideologico che regge l’industria culturale. Per dirla con Benjamin, il mercato è saturo di «prodotti di rifornimento» e in Italia lo Stato non investe nella cultura. Reading Bloom è indipendente: non prende finanziamenti pubblici ma opera per finalità di divulgazione culturale. Vorrei aggiungere che il sostegno a questi progetti incomincia dalla società civile: la pirateria, ad esempio, non aiuta produttori, filmmaker e musicisti a vivere delle proprie passioni. A monte di ogni mestiere c’è dunque, sempre, la dignità del lavoro.

Quali sono, ad oggi, i film del catalogo?

Il catalogo ha preso forma con Film di Samuel Beckett e Notfilm di Ross Lipman, un cine-saggio che lo racconta usando materiali d’archivio inediti. Ora stiamo riportando in sala anche i lungometraggi restaurati di Shirley Clarke insieme ai suoi home movies e corti sperimentali sonorizzati per la prima volta dal vivo da Maria Teresa Soldani, Roberto Paci Dalò e altri musicisti. In autunno ci concentreremo sulle opere di Charles Burnett [Oscar onorario 2018] e di altri registi afroamericani della cosiddetta L.A. Rebellion. Sono lieta, inoltre, di aver avviato una collaborazione con il Conner Family Trust, la fondazione che si occupa dell’eredità artistica di Bruce Conner, a cui il MoMA ha dedicato nel 2016-17 un’importante retrospettiva. Il 5 maggio Ross Lipman presenterà diversi suoi found footage film al Museo Nazionale del Cinema di Torino, nell’ambito della mostra SoundFrames, che ospiterà anche la premiere italiana del suo live-doc The Exploding Digital Inevitable su Crossroads di Bruce Conner.

Hai in mente iniziative per la promozione del catalogo Reading Bloom? C’è una strategia?

Cerchiamo di attivare collaborazioni e strategie di «promozione diffusa» a diversi ambiti – musica, fotografia, arte, editoria – scardinando le tradizionali unità di tempo, luogo e genere. Il catalogo di Reading Bloom è come un archivio: nei limiti del possibile, intende resistere all’obsolescenza delle merci. Sono contraria alla promozione dei film unicamente come «evento». L’opera d’arte, semmai, può rivelarsi come epifania.