Da tempo ormai immemorabile la bibliografia italiana su Gramsci è dominata dal tema dei suoi rapporti con il partito negli anni del carcere. L’esistenza di una difformità, peraltro da sempre largamente nota, tra i Quaderni e i coevi indirizzi culturali e politici del partito ha generato una ricerca sempre più ossessiva sul «tradimento» che sarebbe stato giocato ai danni del prigioniero. Sull’onda di una filologia avventurosa e spericolata si è persino ipotizzato un quaderno «mancante», fatto sparire dalla censura preventiva del Pci. Si accoglie pertanto quasi con sollievo un libro come quello di Michele Prospero (La scienza politica di Gramsci, Bordeaux) che torna a cimentarsi con una lettura diretta dei testi.

La tesi del libro è che la richiesta di un politico forte e auto centrato fa da contrappunto in Gramsci ad una analisi che indugia a lungo sui modi in cui un sistema liberale di tipo parlamentare può subire un processo di progressivo corrompimento e degrado fino alla negazione di fatto del principio della rappresentanza democratica. La crisi del partito, in quanto essenziale tratto di unione tra società civile e stato, è sempre il vero epicentro di una involuzione di sistema, destinata a sfociare, prima o poi, in un mutamento della stessa forma di governo. Prospero ripercorre e commenta tutti i fondamentali passaggi dell’analisi gramsciana: la degenerazione burocratica, la disgregazione trasformistica, la fascinazione carismatica, la regressione nell’apoliticismo, l’involuzione cesarea, che può avanzare anche attraverso la formazione di grandi coalizioni di governo che tolgono al parlamento la sua precipua funzione di rappresentazione politica del conflitto sociale.

Una teoria dello Stato

Comprensiva di questa complessa fenomenologia è la più generale contrapposizione tra lo stato inteso come costituzione e il governo, tra la politica come forma in cui una società si organizza e si esprime in ottemperanza ai conflitti sociali da cui è percorsa, e la politica come macchina o tecnica (come governance nel linguaggio di oggi), ossia come potere esecutivo che ricerca nella sua separazione e nella sua razionalità esclusiva ed escludente il principio del proprio sviluppo. O ancora: tra lo stato che si allarga alla società civile e lo stato che si contrae nell’apparato burocratico. Questa linea di conflitto attraverso cui matura sempre lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare, ha investito, per Gramsci, anche il nuovo potere nato dalla rivoluzione d’ottobre. In questo senso si può dire che nei Quaderni ci sono i fondamenti di una teoria unica dello stato. In qualsiasi contesto sociale la democrazia avanza solo con la diffusione e l’arricchimento del politico.

Gramsci non ha letto gli ultimi corsi di Foucault al Collége de France sulla contrapposizione tra stato e governamentalità. I suoi punti di riferimento sono da un lato La filosofia del diritto di Hegel, che, nelle sue parole, interpreta la società civile come «trama privata dello stato», dall’altro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che vede nel potere dell’esecutivo, sempre più dilagante con lo sviluppo di rapporti capitalistici, la causa immanente di ogni involuzione autoritaria. Il passaggio da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo sta a testimoniare l’esistenza di un potere separato che sovrasta e condiziona la politica. Per questo l’involuzione cesarea può avanzare senza il concorso di grandi personalità.

Dinanzi all’incapacità del pensiero liberaldemocratico classico di dire una parola sulla crisi della democrazia che stiamo vivendo, i Quaderni di Gramsci, che Norberto Bobbio volle tanto tenacemente mandare in soffitta, continuano ad avere un singolare potere di illuminazione sul presente. Oggi valutiamo meglio l’effetto disarmante di una visione della democrazia che si costruiva nella più completa ignoranza del legame di ferro tra potere economico e potere burocratico che la mondializzazione e lo stesso sviluppo del processo di integrazione europeo stava già allora saldando.
La lettura dei testi gramsciani che Prospero ci propone è legittimamente, ossia senza alcuna sollecitazione dei testi, orientata all’esperienza dell’oggi. Si può dire che in essa si definisce la prospettiva critica con cui egli guarda alla crisi italiana nel suo volume immediatamente precedente Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux. Con particolare efficacia il capitolo intitolato «La rivoluzione passiva» suggerisce come nello smantellamento progressivo del partito politico, sempre incoraggiato e promosso dai poteri costituiti, si debba cogliere il tratto distintivo di una «crisi organica» che dall’inizio degli anni Novanta arriva, con le elezioni del febbraio 2013, al crollo del bipartitismo, assunto come principio fondante della seconda repubblica, per approdare (provvisoriamente!) all’Opa (offerta pubblica di acquisto) di Renzi sul Partito democratico.

Il ciclo populista genera un politico sempre più fragile e aleatorio, in cui il carisma di carta pesta inventato dai media si mescola con la degenerazione trasformista e con un discorso pubblico sempre più svuotato di ogni contenuto reale. Le affinità tra questi diversi episodi sono indubbiamente impressionanti. E tuttavia la fedeltà allo spirito della analisi gramsciana impone la ricerca di differenze che indiscutibilmente permangono. Con i leaderismo di Berlusconi si cementa una nuova destra di governo estranea e aggressivamente contrapposta a tutta la precedente storia repubblicana. Con il leaderismo di Grillo si esprime la protesta di vasti ceti popolari nei confronti di un sistema politico che ha abbassato drammaticamente il livello delle proprie prestazioni, disattendendo sistematicamente le aspettative della società civile. Con i leaderismo di Renzi giunge a conclusione la involuzione programmatica e politica del Partito democratico (a sua volta ultima metamorfosi del vecchio Pci) che è definitivamente precipitata nell’autunno del 2011 con il consenso dato alla formazione del governo Monti.

Stress da austerità

Nell’ondata populista che oggi investe tutti i sistemi politici europei sottoposti allo stress della politica di austerità si esprimono contenuti sociali spesso tra loro opposti. La protesta antipolitica di chi ha perso il lavoro rimane profondamente diversa da quella di chi non vuole pagare le tasse. Riuscire a mantenere il senso delle distinzioni è la vera posta in gioco sia dell’analisi che dell’iniziativa. La perenne saldatura tra contenuto e forma è in effetti il lascito più importante della metodologia gramsciana che questi due libri di Prospero ripropongono con grande forza all’attenzione della nostra cultura politica.