Con una lettera comune a Vladimir Putin, per ottenere che la Russia non faccia ricorso al veto e blocchi ancora la risoluzione Onu su una tregua umanitaria di 30 giorni nella Ghouta, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno chiesto ai partner europei di sostenere una posizione unitaria dell’Unione sul dramma in corso in Siria.

Il vertice informale che ha riunito ieri 27 capi di stato e di governo della Ue (senza Theresa May) doveva gettare le basi per il prossimo budget dell’Unione (2021-2027) e definire la modalità dell’elezione del prossimo presidente della Commissione, che succederà a Jean-Claude Juncker dopo le elezioni europee del maggio 2019. Sul bilancio, ci sono due questioni cruciali: come far fronte ai 12 miliardi di euro l’anno che verranno a mancare a causa della Brexit e dove destinare i fondi. Su questo secondo punto, purtroppo si profila un rafforzamento dell’Europa fortezza, a scapito sempre più dell’Europa sociale. La “linea” è stata data dal presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, che ha ambizioni italiane: ha difeso un «budget politico», concentrato su sicurezza, immigrazione, famiglia e, in ultimo, occupazione. Il budget europeo pesa solo il 2% della spesa pubblica dei paesi Ue, nel 2017 è stato di 158 miliardi di euro. Olanda, Danimarca, Svezia, Austria non vogliono sentir parlare di un aumento dei contributi nazionali per sopperire al buco creato dalla Brexit. L’Italia con la Polonia e l’Irlanda è su posizioni opposte. Francia e Germania parlano di aprire un capitolo sui «beni pubblici europei», che potrebbe portare a un aumento dei «fondi propri» della Ue (si parla di una tassa sulla plastica o sul reddito generato dal mercato di Co2). La Commissione auspica un aumento del budget del 10%, l’Europarlamento del 20%. Per redistribuire i finanziamenti, c’è sul tavolo una nuova revisione della Pac (politica agricola) e anche l’eventualità di imporre delle «condizionalità» all’erogazione dei Fondi di coesione (rispetto dello stato di diritto, delle politiche approvate…, misure che potrebbero colpire, per esempio, paesi come la Polonia o l’Ungheria, grandi beneficiari che poi non rispettano gli impegni comuni).

L’offensiva di Macron per arrivare a liste transnazionali alle elezioni europee per il momento è fallita, respinta da un voto del Parlamento europeo all’inizio di febbraio (dopo che Strasburgo aveva approvato questa idea nel 2015), a causa di un voltafaccia del gruppo Ppe. Macron, che ha sconvolto il paesaggio politico francese, vorrebbe fare la stessa cosa in Europa. Non si sa ancora dove siederanno i futuri deputati En Marche, per questo Macron vuole evitare che venga ripetuto il meccanismo dello Spitzenkandidat, adottato nel 2014 per l’elezione di Juncker: l’automatismo tra il capo di un gruppo politico e la nomina alla testa della Commissione per il partito vincente (il Ppe, in maggioranza, impose il suo candidato Juncker alla Commissione). Non solo Macron, ma una decina di paesi sono contrari allo Spitzenkandidat, che toglie potere al Consiglio, mentre l’Europarlamento approva con entusiasmo questo sistema. Sui 73 seggi lasciati vacanti dai britannici resta la proposta dell’Europarlamento di redistribuirne 27 a 14 paesi membri per un riequilibrio demografico (anche l’Italia ci guadagna), lasciando i restanti 46 per i prossimi allargamenti.

Rimandata a più tardi la questione della fusione delle cariche di presidente della Commissione e presidente del Consiglio (oggi Juncker e Tusk), che richiede una pericolosa revisione dei Trattati, un vero a proprio vaso di Pandora che è meglio non aprire in questo periodo.