Cambiare o perire: questo è, ridotto al suo nucleo essenziale, il messaggio che Jürgen Habermas indirizza alla politica europea nel suo ultimo libro ora tradotto anche in italiano: Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, appena uscito per i tipi di Laterza nell’ottima traduzione di Leonardo Ceppa, che arricchisce il testo anche con una lucida postfazione (pp. 114, euro 15). Da molto tempo Habermas, in sostanziale sintonia con tutti i migliori intellettuali della sinistra europea, è convinto che i problemi del vecchio continente si possano risolvere solo con «più Europa»; e, nel volume ora pubblicato, riprende e argomenta questo suo orientamento di fondo.

Il punto di partenza, però, è un’analisi molto critica delle scelte sbagliate che hanno portato l’Unione alla attuale situazioni di crisi, e che hanno dato fiato a tutto il risentimento antieuropeo che troverà certamente espressione nel voto di domenica. Per riprendere il discorso dalle sue basi, il nodo di fondo è quello del rapporto tra politica e mercati: nello Stato democratico novecentesco, ricorda il filosofo francofortese, l’esercizio da parte dei cittadini del loro potere politico democratico per un verso coesiste con l’apertura alle più ampie libertà economiche e a un’economia capitalistica capace di generare benessere; ma per altro verso esercita anche un potere di regolazione sulle potenze anonime del mercato, cercando di ricondurle, con il welfare, dentro un quadro di compatibilità sociale. Ora però questo equilibrio (che è stato sempre molto fragile e molto conflittuale, assai più di quanto Habermas non dica) sembra essere completamente saltato, come rileva lo stesso studioso francofortese. Le scelte della politica sono, con una nettezza che non si era mai vista prima, assoggettate ai mercati finanziari: «non era mai successo che governi eletti del popolo venissero sostituiti senza esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario Monti o a Loukas Papademos. Mentre la politica si assoggetta agli imperativi del mercato, dando per scontato l’aumento della diseguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono progressivamente alle strategie giuridiche stabilite per via democratica. Questo trend non potrà essere rovesciato se non nell’ipotesi – tutt’altro che garantita – che la politica riconquisti un suo potere di azione sul piano europeo».

«Più Europa» significa dunque innanzitutto, nella prospettiva di Habermas, che la via percorsa fino a questo punto dal processo di integrazione deve essere, se si vogliono evitare il fallimento cui questo processo sembra andare incontro e il rigetto che sempre più largamente si esprime nei confronti di esso, sostanzialmente modificata e accelerata. La svolta auspicata si riassume in alcuni punti-chiave. In primo luogo, è necessario che finalmente l’unione monetaria si trasformi in una vera e propria unione politica; e ciò implica, indubbiamente, che si dovrà marcare una distinzione tra il centro portante del progetto di unione politica e quei paesi che resteranno più periferici; e che si dovrà chiarire in questa prospettiva il ruolo della Gran Bretagna, che appare orientata più verso qualche passo indietro che verso una decisa marcia in avanti. Ciò che manca di più all’Europa, sostiene Habermas, è una vera political leadership, capace di imprimere alle dinamiche dell’Unione una svolta decisa: non è più sufficiente procedere con l’«incrementalismo» dei piccoli passi, «così ben personificato dalla prudente miopia di Angela Merkel».

Costruire una vera unione politica significa, in secondo luogo, che i partecipanti ad essa dovranno dotarsi di una «comune politica fiscale, di bilancio ed economica». Il punto è evidente ed è stato ormai sottolineato da più parti: l’unione monetaria senza una messa in comune della politica economica «non ha fatto altro che acuire le notevoli differenze di sviluppo e di competitività tra le varie economie nazionali». Oggi ci troviamo pertanto di fronte a un’alternativa secca: o continuare nella direzione fin qui intrapresa, comprimendo ancora di più le economie dei paesi deboli e le residue garanzie del welfare, e condannando infine al fallimento lo stesso progetto dell’euro; oppure invertire decisamente la tendenza nel senso si una vera solidarietà europea. Il che significa accettare la possibilità di trasferimenti finanziari da uno Stato all’altro e mettere in qualche modo in comune la stessa gestione del debito.

A questo passaggio, che comporterebbe un colpo sostanziale alla restante (ma già dimezzata) sovranità degli Stati nazionali, si dovrebbe affiancare, perché altrimenti scelte così impegnative resterebbero prive di legittimazione, una compiuta implementazione di processi decisionali democratici a livello dell’Unione: a cominciare dalla ridefinizione dei poteri del Parlamento europeo. Dal punto di vista dell’architettura istituzionale, però, rafforzare l’Europa non significa, per Habermas, andare nella direzione di uno Stato federale. Questo, dice senza mezzi termini, è un modello sbagliato, o quantomeno inadatto al vecchio continente. La direzione di marcia che egli disegna può essere invece sintetizzata nelle idee di «sovranità divisa» e di doppia cittadinanza: nello scenario auspicato dal teorico francofortese gli Stati dovrebbero cedere all’Unione significative quote di sovranità, restando però più autonomi di quanto non accada ai partner di uno Stato federale; e a questo sviluppo dovrebbe corrispondere una sorta di raddoppiamento della figura del cittadino. In sostanza, i cittadini europei dovrebbero partecipare democraticamente a determinare le politiche dell’Unione in una duplice veste: sia in quanto membri di uno Stato che concorre con le altre nazioni alla politica comune, sia in quanto singoli, cioè in quanto cittadini europei titolari della sovranità democratica a questo superiore livello.

Progetto ambizioso e soprattutto in controtendenza, perché entra in rotta di collisione sia con la «spirale tecnocratica» in cui si è avviluppata l’Unione, sia con il risentimento anti-Bruxelles ampiamente diffuso tra i cittadini del vecchio continente. Ma forse proprio su questo sarebbe stata (ed è) necessaria una riflessione ulteriore: oggi infatti ci troviamo di fronte ad una quasi totale incomunicabilità tra ciò che pensano le voci più intelligenti della sinistra e il sentire diffuso in ampi strati dei ceti popolari e subalterni. Non sarebbe il caso di dedicare a questo tema, difficile ma ineludibile, qualche riflessione un poco più attenta?