Bisogna fidarsi della dose di paradosso già presente nel titolo di Un luogo dopo l’altro. Arte site-specific e identità localizzativa.(Postmedia Books, pp. 216, euro 24) di Miwon Kwon. Come catturare infatti l’identità di un’arte che può configurarsi in base al luogo, allo spazio urbano, alla sua architettura, e ai suoi abitanti?

Miwon Kwon tenta l’impresa, e nelle prime pagine è molto chiara sulle intenzioni della sua ricerca e scrive: «Questo libro esamina criticamente la site-specificity non solo come genere artistico ma come idea problematica, in quanto codice particolare dell’arte e della politica spaziale». Inoltre, «informato dalla teoria urbana critica, dalla critica postmoderna in arte e architettura e dai diritti che riguardano la politica dell’identità e la sfera pubblica, il libro punta a riformulare la site-specificity come mediazione culturale dei processi sociali, economici e politici che organizzano la vita e lo spazio urbano».

PRESO ATTO di quanto possa essere un concetto problematico quello che sta alla base della sua ricerca, l’autrice passa a sollevare il site-specific dall’abisso di acriticità cui è stato condannato dall’(ab)uso che se n’è fatto. E la sua capacità di attraversarne i paradigmi che vi si sono avvicendati, i casi più esemplari, ma anche i punti di svolta, di rottura, e le rimodulazioni, rende il libro un prezioso strumento di indagine e studio.

L’andamento del testo ha la forma di una spirale, progressiva e apparentemente lineare, in cui il concetto di sito si espande e accoglie al suo interno sempre più aspetti, talvolta non necessariamente conciliabili né conciliati.

Dal site-specific delle origini, in rotta con lo spazio culturalmente definito dalle istituzioni «vissuto come una cornice neutra, e fruito da un pubblico universale, in linea con la tradizione del modernismo», si passa al site-oriented, con un’idea di spazio meno tangibile e determinato, ma più fluido e virtuale, che diventa vettore discorsivo tra i soggetti che lo agiscono, e assume istanze sociali e politiche. E poi, via via, lo spazio così dilatato incontra in un climax lo spazio pubblico, l’interesse pubblico, la comunità.

È tanta la cura con cui Kwon raccoglie le diverse prospettive con cui si è attivato un coinvolgimento della comunità in progetti di arte pubblica, tentando di sondare le diverse formule collaborative nella pratica effettiva: il rapporto con le istituzioni e con gli artisti, il peso decisionale di ciascuno degli attori coinvolti, i loro ruoli e responsabilità.

Kwon schematizza, traccia paradigmi e modelli, e costruisce bibliografie imprescindibili per conoscere il site-specific del trentennio che va dai primi ’70 a metà anni ’90 in area statunitense. Ma, nonostante il desiderio di sistematicità, ci si deve arrendere all’incedere del nomadismo e della mobilità fluida che si impongono nella società degli anni ’90, con una conseguente perdita di specificità del sito.

QUELLO ANALIZZATO da Kwon è un mondo che si accorge di essere interconnesso, si convince di non poter fermare il progresso tecnologico e inizia ad andare avanti veloce come nel video di Ray of Light di Madonna, così veloce da scivolare tra le mani di chi voglia costruire dei sistemi concettuali, e servirsi dei concetti di identità, che si tratti di cogliere la specificità della pratica artistica, il ruolo della curatela o quello della comunità coinvolta.

Al lettore di oggi, la ricerca di Kwon può sembrare fin troppo calata negli anni in cui è stata elaborata, tuttavia essa ha il merito di individuare gli esordi di una soggettività che Rosi Braidotti negli stessi anni avrebbe definito nomade. Una soggettività che avrebbe negoziato la propria identità con la molteplicità e che avrebbe trovato il proprio spazio nel divenire.