La fotografia come traccia «stanziale» della velocità dell’inquadratura, dello scatto. Un «allenamento visivo» influenzato dal realismo di Jean Renoir in La grande illusione e dal neorealismo di Vittorio De Sica in Ladri di Bicicletta, quello di Cecilia Mangini (Mola di Bari 1927-Roma 2021), prima documentarista italiana in un’epoca in cui la macchina da presa era off limits per le donne. Mangini è stata anche fotografa, oltre che sceneggiatrice, moglie (di Lino Del Fra) e madre (di Luca).

LA SUA FASCINAZIONE per la fotografia nacque in ambito familiare vedendo uno zio maneggiare una costosissima Leica, irraggiungibile per lei che ventenne optò, piuttosto, per la più economica ma semiprofessionale Zeiss Ikon (modello Super Ikonta) con obiettivo Tessar. Questo succedeva intorno al 1951, prima del trasferimento da Firenze a Roma dove avrebbe conosciuto Del Fra, suo compagno di vita e professione. Durante un viaggio alle isole Eolie, nell’estate 1952, realizzò il suo primo reportage sulle cave di pietra pomice (Cave di Lipari), trascrizione in bianco e nero dei colori estremi della condizione dei lavoratori in una cornice naturale abbagliante.

SOLO IN UN SECONDO momento, osservando i provini a contatto si rese conto della forza e della potenzialità del suo sguardo, espressione di una sensibilità che rimarrà sempre empaticamente vicina all’umanità che ritraeva, ovunque nel mondo. Tra il 1952 e il ’65 Cecilia Mangini collaborò con numerose testate, pubblicando i suoi saggi anche su Cinema Nuovo, Cinema ’60 e L’Eco del Cinema. Tornò a fotografare nel ’75, quando si recò nel carcere di Turi: doveva prendere appunti per il film Antonio Gramsci – I giorni del carcere (1977), diretto da Lino Del Fra. Fotografò poi il movimento nelle strade di Hanoi, nel marzo 1965, la vita rurale nella zona di Hai Duang e i due bambini che disegnavano aerei sul muro di un edificio a Thanh Hoah: il film documentario non sarà mai realizzato, ma rimane indelebile questa testimonianza struggente di un paese attraversato dalla dignità.

LA FOTOGRAFA inquadrava sempre i suoi soggetti a una distanza di pochi metri. Lo vediamo anche in una foto che le fece suo marito proprio in Vietnam: del resto, come aveva affermato Robert Capa, «se la tua foto non è venuta bene, non eri abbastanza vicino al soggetto».

Difficile scegliere un’immagine più iconica delle altre, c’è sempre una narrazione sequenziale negli scatti di Cecilia Mangini che rivelano il suo desiderio di raccontare un presente che, forse, appartiene già al passato: Firenze nel ’59 o Milano nel ’55 con le ferite ancora evidenti della guerra (il reportage è realizzato per la rivista Rotosei), la Roma di Pasolini, l’amata Puglia con la moderna Fiera del Levante a Bari nel ’60 che si contrapponeva alla visione antica del cantastorie di Adelfia (1956). Scatti che ritroviamo, insieme ai ritratti intensi e mai convenzionali di Moravia, Fellini, Elsa Morante, Pasolini, Carlo Levi. Tra gli altri, c’è anche Satyajit Ray – nell’atto di scattare, a sua volta, una fotografia a chi lo fotografa a Venezia nel ’57 – nel catalogo della mostra Cecilia Mangini. Visioni e Passioni. Fotografie 1952-1965, curata da Claudio Domini e Paolo Pisanelli nel 2017 al Museo delle civiltà – Museo delle arti e tradizioni popolari di Roma.

Nella quarta di copertina è lei stessa ad affermare che «essere fotografa» significa spogliarsi delle idee preconcette per «andare in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, qualcosa di assolutamente nascosto… e la fotografia, come tutto ciò che è un’icona, lo rivela».