Se volessimo prestar credito al proverbio ceco «Si hanno tante vite quante sono le lingue che si conoscono», Elena Lappin potrebbe attribuirsi almeno cinque o sei esistenze diverse. Russo, ceco, tedesco, francese, ebraico e inglese sono infatti – in ordine rigorosamente cronologico – gli idiomi che si sono aggiunti nella sua mente nel corso degli anni, componendosi in un’unità in perenne smottamento, rimescolata dai tanti spostamenti subiti da bambina o intrapresi in età adulta.
Alla luce di questa complessità potrebbe apparire più che giustificato l’interrogativo che dà il titolo al suo memoir scritto in inglese, In che lingua sogno?, ora tradotto per Einaudi da Laura Noulian (pp. 312, euro 20,00). Senonché l’intento dell’autrice (ora scout editoriale di stanza a Londra) è mostrare come il mondo interiore del poliglotta non consista in una accumulazione avida, quasi smodata di identità o di vite diverse, bensì nella selezione intuitiva degli orizzonti e delle possibilità che una lingua o l’altra possono aprirci.

Più che di affastellamento si tratta paradossalmente di scarto, alla ricerca forse impossibile delle parole che possano dire pienamente il nostro essere. Così, il viaggio di Lappin tra le lingue si svolge per lo più negli interstizi che separano le une dalle altre, per svelare come nessuna – complice anche la Storia e le sue interferenze – possa darsi davvero come definitiva.
All’origine di questa deriva esistenziale, oltre che verbale, c’è ovviamente la perdita in tenera età di quella che avrebbe potuto essere la lingua madre, ma che non si è mai cristallizzata come tale, a causa sia del distacco dalla terra natale, sia di un consapevole rifiuto polemico. Nata nel 1954 a Mosca, Lappin è approdata infatti a Praga a quattro anni al seguito della madre, ebrea russa affascinante e un po’ svagata, e di quello che considerò per lunghissimo tempo il proprio padre naturale, traduttore dal ceco al russo, anch’egli di origini ebraiche. Non a caso, la prima notte da espatriata trascorse per lei già sotto il segno di quegli andirivieni tra le lingue che avrebbero segnato la sua vita futura: mentre dormiva, i genitori continuarono a rivedere fino a tarda ora la traduzione che il padre putativo avrebbe dovuto consegnare l’indomani.
L’infanzia spensierata vissuta a Praga «sotto l’ombrello bucato del totalitarismo» sembrava preludere per Lappin a una felice coesistenza del russo, parlato a casa, con il ceco, quella «lingua meravigliosa per fare battute» appresa agevolmente a scuola. A infrangere questo precario equilibrio furono i carri armati del Patto di Varsavia il 21 agosto 1968, quando «il mio nuovo paese venne brutalmente invaso dal mio vecchio paese, spingendoci così a emigrare in un altro paese ancora», ossia la Germania. Si innesca qui per la prima volta un meccanismo che tornerà più volte nella biografia dell’autrice: tra le lingue già interiorizzate avvengono reazioni «chimiche» che le portano a auto-escludersi o, al contrario, a attirarne altre ancora ignote, creando legami complessi.
Se il russo in quanto «lingua degli invasori» viene rifiutato della protagonista quattordicenne che si immagina già patriota cecoslovacca, il tedesco, pur imparato perfettamente sui banchi del liceo ad Amburgo, la rende paradossalmente consapevole della propria estraneità al mondo germanico e curiosa di indagare, di converso, le proprie radici ebraiche.

L’antisemitismo strisciante della società tedesca sperimentato di persona negli anni settanta («uno stillicidio, più che un’aggressione») avrebbe portato infatti Lappin a intraprendere gli studi universitari in Israele, un paese-crogiolo popolato da persone giunte da ogni angolo del mondo e pertanto tutte egualmente straniere, dove si sentì finalmente «a casa». D’altro canto, il trasferimento a Tel Aviv – e poi, quasi a ruota, quello a Ottawa, al seguito del marito ebreo canadese – avrebbero finito per rimandare inevitabilmente la soluzione dell’interrogativo in realtà più cruciale: non tanto «in che lingua sogno», quanto in quale delle tante lingue conosciute coltivare le proprie ambizioni di scrittrice.
Se il ceco viene scartato in quanto troppo minoritario, il tedesco pone problemi decisamente più complessi. Lappin spiega infatti che, se avesse scelto quella lingua, si sarebbe sentita fortemente condizionata dal tacito obbligo di spiegare «come si vive il rapporto con la dimensione ebraica della propria identità in un paese che ha cercato di annientarla».
Una posizione diamentralmente opposta a quella di Katja Petrowskaja, autrice kieviana proveniente da un ambiente molto simile a quello di ElenaLappin, eppure capace di inventarsi una fisionomia di scrittrice in tedesco sulla base di un libro centrato sulla scomparsa di una parte della propria famiglia nella Shoah (il sorprendente Forse Esther, tradotto da Ada Vigliani per Adelphi nel 2014) provocatoriamente scritto in quella che tuttora viene da lei definita la «lingua del nemico».

Non diversamente da Petrowskaja, che vive ora a Berlino, anche Elena Lappin scelse come lingua in cui scrivere l’unica in comune con il coniuge e i figli, e cioè l’inglese, parlato abitualmente sia pur con una certa varietà di accenti. Un’opzione che si rivelò molto più fondata di quanto non parrebbe, allorché l’autrice, a quarantotto anni, scoprì che il suo vero padre era in realtà un ebreo statunitense emigrato a Mosca.

Curioso e intelligente, In che lingua sogno? soffre a tratti sul piano narrativo, perché gravato dall’ansia dell’autrice, che tenta razionalmente di tenere insieme i tanti fili dispersi delle sue identità. Sicché il lettore finisce per tirare il fiato, quando Lappin si lascia sfuggire qualche considerazione un po’ più emotiva del solito, come per esempio dinanzi agli alberi del parco di Praga dove giocava da bambina: «A differenza di me, sono rimasti qui; mentre io vagabondavo, senza radici e sradicata, loro non si sono mai mossi».