Resident Evil 7: Biohazard (Capcom) rispetta la regola principale utilizzata da J.J. Abrams per riproporre con successo le saghe di Star Trek e Star Wars, una regola enunciata parecchio tempo prima da Tomasi di Lampedusa: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E sembra davvero un mondo diverso quello che fin dall’inizio si presenta di fronte ai giocatori di RE7, a partire dalla visuale in prima persona, per culminare nell’apparente assenza dei personaggi resi noti dalla saga videoludica e dalle sue mutazioni cinematografiche, fumettistiche, letterarie, resi ubiqui dalla fortuna della saga tra il popolo cosplayer. Al gamer occasionale può sembrare addirittura di stare più dalle parti di The Last of Us in quanto, come nel titolo sviluppato da Naughty Dog, le mutazioni zombificanti hanno natura fungina. Ma all’appassionato di Resident Evil, a chi segue la saga dagli episodi precedenti alla conversione in sparatutto in terza persona, ben presto diventa chiaro che, se la prospettiva in prima persona è un elemento necessario all’adattamento di questo titolo alla realtà virtuale, non per questo RE7 rischia di trasformarsi in un clone di DOOM. Al contrario è proprio la prospettiva in prima persona che permette di ritornare ad un horror in cui è la qualità dei mostri a spaventare il giocatore piuttosto che la loro quantità.
Il nostro compito sarà quello d’impersonare tale Ethan Winters, alla ricerca in una magione sperduta nel bayou della Louisiana, della moglie Mia, dispersa da tre anni e creduta morta. Ethan non è un soldato addestrato e più volte il giocatore si ritroverà a maledire la sua lentezza, soprattutto se confrontata agli scatti mortali delle creature che si troverà ad affrontare. Nonostante l’inesperienza, ben presto Ethan trova la moglie nei sotterranei della casa e la libera solo per scoprire che viene posseduta da una forza estranea che la trasforma in una furia assassina. Assieme a Mia vivono nella casa altre cinque persone che compongono una sorta di famiglia deviante alla ricerca di turisti e vagabondi da infettare e da trasformare o in cibo o in altrettanti mostruosi membri. Come Ethan dovremo evitare gli zombi fungini e gli abitanti della casa resi folli e virtualmente immortali dal contagio di Eveline per riuscire a creare una cura in ambientazioni come la casa, la nave arenata, una cava di sale.
Il terrore è provocato non dai mostri o dalle macchinazioni della multinazionale, quanto piuttosto dalla trasformazione di ciò che sembra più normale e dalla necessità di scegliere chi salvare e chi abbandonare (che condurrà ai diversi finali presenti) e il piacere maggiore è quello di ritrovare gli stessi enigmi dei primi titoli con chiavi astruse da scovare ed erbe da miscelare e scoprire infine che non è la visuale isometrica a restituirci il vero Resident Evil, ma piuttosto la capacità di raccontare di nuovo in maniera originale la storia che ne è alla base.