Mai come in questi ultimi tempi si adora analizzare, discettare e sparare sentenze sul concetto di cultura. Eppure, almeno nei media, la disinformazione e la confusione aumentano. Certamente anche perché, nel discorso pubblico dei non addetti ai lavori, ci si ostina a considerare la cultura come un concetto avulso dalla storia e dal flusso degli accadimenti nel quale è necessariamente inserito: tutte le culture sono in continuo movimento, anche se alcune tentano disperatamente di apparire statiche e immobili, quasi a soddisfare quel bisogno di «identità» che ha contribuito a costruire l’immagine del nostro Occidente quale la percepiamo oggi.

QUASI COME se la nostra «identità» nascesse proprio dalla rimozione della storia. Inoltre, ad aumentare il disagio verso il concetto di cui parliamo è anche quel senso di spaesamento culturale dovuto al fatto che, se da un lato la cultura umana consiste essenzialmente nel costruire relazioni con altri gruppi di esseri umani, con gli animali e con il mondo, proprio queste relazioni negli ultimi decenni sembrano e vogliono essere negate.

NEL VOLUME La cultura ci rende umani (Utet, euro 12), otto autori (Edoardo Albinati, Stefano Allovio, Jean Loup Amselle, John Eskenazi, Adriano Favole, Vittorio Lingiardi, Paola Mastrocola, Marta Mosca) cercano di dipanare questa intricata matassa mostrando le implicazioni del concetto di cultura e la sua composita declinazione in contesti diversi: dalle scuole carcerarie o «normali», ai campi di accoglienza in Burundi; dall’arte del Gandhara delle origini, alle intriganti implicazioni del fondare il museo del Louvre ad Abu Dhabi; dai problemi di genere delle diverse epoche a quali siano i limiti e gli «sconfinamenti» delle culture nei confronti del concetto e del mondo di Natura. Infine, quanto della cultura intervenga come «materiale da costruzione» della nostra biologia.

TEMATICHE DIVERSE ma con il principio comune che la cultura è sempre e comunque inserita – e disciolta – in un flusso storico, plasmato dagli esseri viventi e che a sua volta li plasma, in una sorta di gioco in cui il creatore e il creato perdono le loro mansioni tradizionalmente stabilite.
Una circolazione ininterrotta in fondo ben espressa dalla risposta di Odruepa, vecchio informatore Mangbetu di Stefano Allovio, alla domanda sul significato e sul perché dei suoi tatuaggi: «Non sono una capra», gli rispose. Come dire che è proprio in virtù del fatto che io possa plasmarmi e cambiare il mio corpo che sono inserito a pieno titolo in una cultura, nel suo incessante flusso.