Il sogno è sempre quello: volare. Volare in alto. Volare via. Volare lontano. All’uomo capita spesso, sempre, di desiderare quasi ossessivamente ciò che non ha, che non può ottenere. Serve il cielo, a creare in questo piccolo egocentrico essere il desiderio di andare oltre. A stimolargli dentro il rischio del vivere. Ognuno vola a modo suo, ognuno ci ha provato almeno una volta, siamo tutti un po’ Icaro. C’è chi ce la fa, chi si eleva dalle pesantezze del proprio cuore, chi sbatte queste benedette ali a un certo punto e trova la corrente giusta, il cielo terso, le stelle ad accompagnarlo. Agli artisti, e solo a loro, tocca il compito di indicare la rotta, attraversando le «correnti gravitazionali» nell’impeto irrefrenabile di trasformarle in un sogno che possa palesarsi a tutti, a quel pubblico di cui si nutrono e che a loro volta sfamano in un maternage di cui non riescono a fare a meno. È complicato. A volte. Nella regia di Caterina Mochi Sismondi la ricerca del volo si sta concretizzando in una visione completa. Il bagaglio che l’accompagna è variegato e affonda le sue radici in un bacino dal valore indiscutibile, la danza classica.

Diplomata in Arte Drammatica alla Paolo Grassi, insegnante del Metodo Feldenkrais, fondatrice nel 2008 della compagnia blu cinQue, Mochi Sismondi ormai da qualche anno lavora intensamente a una nuova dimensione del movimento in scena, unendo la tradizione della danza pura e del Teatro Danza al volume delle arti circensi contemporanee. Nelle sale di danza di qualche tempo fa, e forse ancora di oggi, con i pavimenti di parquet consumato dalle punte e dai corpi ossuti che scaricavano sudore e fatica, insegnanti implacabili dalla schiena dritta e idee pietrificate urlavano spesso la frase «non siamo mica al circo qui!»… il circo. Realtà denigrata, inferiore, sporca.

Il faro della danza classica illumina e oscura tutto «ho vissuto anni con questo pregiudizio, poi ho incontrato sulla mia strada il circo contemporaneo, dapprima come insegnante di classica di alcuni circensi. Fu in quel momento che iniziai a capire quel percorso artistico. Poi, ho incontrato Paolo». Paolo Stratta è suo marito ed è il patron del Cirko Vertigo, una delle realtà più interessanti in Europa per ciò che riguarda il circo contemporaneo. L’inserimento di performer circensi nella sua ricerca è avvenuto in maniera spontanea, apportando un quid creativo altro e fino ad allora inesplorato. «Il mio lavoro deriva dalla destrutturizzazione di ciò che ero, una ballerina, e di quello che sto diventando. Il tema principale su cui mi sto concentrando è lo spiazzamento. Il disequilibrio, l’essere fuori luogo, che in qualche modo si ricollega alla mia scelta artistica di riconoscermi profondamente all’esterno e dietro la scena; nel momento in cui l’ho capito, la direzione è cambiata completamente, sostituendo il disagio con l’essere profondamente a mio agio nel fare, nello scrivere e nell’intervenire comunque e sempre, attraverso altri mezzi che non fossero il mio corpo».

Spiazzamento è essere dentro e al contempo fuori uno spazio e un tempo da scovare, da creare. Ecco che volumi e livelli diversi nella scena di Mochi Sismondi trovano una terra comune in cui dialogano e affascinano chi, con lo sguardo, li segue «è come se accendessi un faro all’interno di un sogno che vive dentro di me. Mi trasporta un flusso che mi permette di vedere ciò che sento ed è un processo molto forte, sempre nella direzione di una verità».

La commistione di tecniche che caratterizza il lavoro di Mochi Sismondi, sotto questa luce interpretativa, appare quindi oltre modo congeniale a una ricerca che nel fluttuare trova una necessità intellettuale e interpretativa imprescindibile «Diversi corpi, stessa mente. È un concetto buddista che rispecchia molto bene il filo conduttore della mia scena. Amo il contrasto, l’imperfezione anche corporea che si contrappone alla pulizia delle linee classiche che m’ispirano costantemente. Nella costruzione drammaturgica, che sia musicale, di testo o di un altro livello spaziale, che è l’apporto principale dell’arte circense, tutto è assolutamente legato». Oltre che sul singolo performer e performance, l’obiettivo evidente del percorso di Caterina Mochi Sismondi consiste in una rivoluzione che necessariamente porta alla libertà. Nel suo teatro c’è il danzatore che si sperimenta con la voce, c’è l’attore che si cimenta con gli attrezzi circensi, c’è il musicista che si butta nel movimento. C’è, quindi, un continuo scambio di informazioni «il razzismo tra ciò che tu sei e ciò che l’altro è esiste in tutti i ruoli artistici. Noi vogliamo andare oltre, cerchiamo fluidità e apertura che spingano a lavorare su più discipline e che non esprimano giudizio». Lei per prima racconta di aver sezionato, pazientemente, dolorosamente, spietatamente la se stessa accademica.

Nelle opere di Mochi Sismondi si percepisce quella zona libera che non si stanca di cercare e proporre, partecipe dello smontaggio meccanico del sé. E dei ma. «Ero partita dal lavorare solo su di me, sul mio stare in primo piano. Quando ho sentito forte il cambiamento passato un momento di grande crisi, come una sorta di scollamento. Oggi lavoro sul dentro decidendo di stare fuori». All’inizio farsi capire non è stato né facile né automatico: Caterina Mochi Sismondi ha iniziato a fare «del circo». E via con il pregiudizio dei puri. «Quando sono entrata in contatto con il circo contemporaneo ho percepito immediatamente quanto la loro ricerca fosse avanzata e creativa, l’ispirazione è cresciuta nel tempo». «Non ho inventato nessuna delle interazioni tra danza e voce e recitazione di cui il Teatro Danza di Pina Bausch è il riferimento. Io con il circo aggiungo questo nuovo livello spaziale che mi ha portato a un’altra cifra di ricerca. Il danzatore ha tutto, tranne il volo. Il circense lo possiede sia quando lavora a terra, sia ovviamente quando si serve dell’attrezzo, che si tratti di un filo teso piuttosto che di una corda verticale, di cinghie, di trapezi…la visuale che ti rimanda è quella aerea. La mia composizione coreografica scompone e allo stesso tempo crea un puzzle che raccoglie cielo e terra in tutta la scena».

La sintesi di questo percorso si chiama Cafè Muller. Un ex cinema porno sito in pieno centro di Torino, in una via Sacchi ormai abbandonata dalla vita pulsante cittadina, rinasce ai vecchi fasti di teatro di posa. Il Cafè Muller, che deve il nome al celebre spettacolo di Bausch, sarà la sede della compagnia blu cinQue e farà parte delle Fondazione Cirko Vertigo e del circuito che ad essa ruota intorno. Un progetto dal sapore antico, che nasce anche dall’unione di paolo e Caterina «un rapporto d’amore che riesce armoniosamente a fondersi con un percorso lavorativo e artistico è in grado di creare cose bellissime. Il Muller vuole essere un luogo di ricerca aperto a diverse realtà e non solo dedicato a blu cinQue. Inoltre, sarà un teatro dove le arti circensi potranno avere un luogo di riferimento culturale ed esprimersi liberamente e in sicurezza, cosa che è molto difficile da trovarsi in Italia».