La narrazione prevalente, fin qui, è stata molto semplice: dopo due anni di presenza al governo, il M5S avrebbe perso la propria “innocenza”. Una forza nata e cresciuta sull’onda della protesta contro la “casta” non regge alla prova di un’azione di governo che obbliga a scelte di campo. C’è del vero in questa spiegazione, ma una chiave di lettura meno contingente mette sotto osservazione due elementi centrali: il regime di democrazia interna con il modello organizzativo, e il profilo di cultura politica.

All’inizio, il M5S nasce dalla fusione tra due spinte: il ruolo carismatico del leader, ma anche la mobilitazione locale (i meet-up) di gruppi e attivisti che trovavano, sotto la tenda capiente assicurata da Grillo, un nuovo canale di partecipazione politica e di impegno civico.

Il M5S nasce “dall’alto”, ma anche “dal basso”: e il modello di partito che ne derivava rispondeva perfettamente ad una delle più recenti tipologie di partito, il partito in franchising, ossia – in alto – il leader, che detiene il brand, definisce l’offerta e imposta le campagne (“pubblicitarie”) e – in basso – le “filiali” che gestiscono, con una notevole autonomia, l’azione locale. Per un soggetto siffatto, non c’era bisogno di regole e di procedure, men che meno di una qualche forma di rappresentanza politica che legittimasse il ruolo di un gruppo dirigente.

Le cose, naturalmente, si sono complicate dopo i successi elettorali del 2013 e. ancor più, del 2018. La stessa presenza di affollati gruppi parlamentari, selezionati spesso in modo casuale, ha acuito i problemi: a chi rispondevano questi “portavoce”? Da quel che si intuisce, la vita associativa dei meet-up si è via via rarefatta, mentre l’arrivo della piattaforma Rousseau, con le sue consultazioni (dettate dal detentore del “potere di agenda”), ha impresso una torsione apertamente plebiscitaria alla vita interna del partito (come ha ben mostrato Paolo Gerbaudo, con il suo libro sul Digital Party, ora in corso di pubblicazione anche in italiano).

L’investitura, poi, – sempre dall’alto – di un “capo politico” ha aggravato le cose: in assenza di una qualsivoglia procedura democratica di legittimazione, il “capo” rimane esposto alla furia degli eventi, specie quando arrivano le sconfitte elettorali e fondato diviene il sospetto che egli voglia innanzi tutto salvare il proprio ruolo. Insomma, il M5S è un organismo in cui manca una qualche connessione trasparente tra la discussione, la partecipazione e la decisione politica. Anche perché non è certo “democrazia”, quella del “si” o del “no” su un quesito on line (a cui peraltro hanno partecipato solo 27 mila iscritti, il 22% degli aventi diritto), senza un gruppo dirigente che si assuma le proprie responsabilità.

Di Maio sembra intrappolato in una visione nostalgica del M5S come partito “pigliatutto”, gonfiato nelle sue vele da tutti i più disparati venti dell’antipolitica: ma sembra non rendersi conto che quel tempo è finito, “bruciato” dalla coabitazione con Salvini e ora da quella (“forzata”) con il Pd. Non basta più alzare il vessillo delle proposte di bandiera, ed è illusorio pensare di riconquistare i voti perduti ingaggiando una guerriglia su questo o quel tema: il consenso al M5S è arrivato per il messaggio complessivo che lanciava, non per le singole “cose da fare”. Da questo punto di vista, anche il M5S è rimasto vittima di una falsa credenza: quella sulla “fine delle ideologie”, auto-convincendosi che davvero “destra” e “sinistra” non significhino più nulla. Pensare oggi – dopo due anni di “contaminazione” al governo – di recuperare una centralità post-ideologica è del tutto illusorio: pensare che oggi, ad esempio opponendosi allo jus soli, gli elettori trasmigrati verso la Lega possano tornare alle origini è pura fantasia.

Il M5S può essere paragonato ad un’armata che, guidata da un condottiero visionario, si è via via ingrossata, inglobando truppe allo sbando, soldati di ventura, ma anche molti volontari accorsi dalle più svariate sponde, animati da ottime intenzioni e da una diffusa voglia di rivalsa. E le prime battaglie sul campo sono state vinte alla grande, sbaragliando vecchi e nuovi nemici. Quando però si è trattato di piantare le tende, governare la vita quotidiana, affidare ruoli e responsabilità, questa armata è diventata un campo di Agramante. E’ iniziata la fuga, e molti sono stati attratti da un altro Capitano, che sembrava, e sembra, avere la Fortuna dalla sua…A questo punto, i generali hanno una sola strada: darsi una strategia, ricostruire una chiara catena di comando, non stare a rincorrere i “disertori”, “salvare” e ricompattare quel che rimane delle truppe (e possono essere ancora tante), offrendo loro una visione, e magari trovare qualche alleato… Fuor di metafora, il M5S può evitare l’implosione e consolidare i livelli di consenso solo scegliendo di farsi “parte”, abbandonando la retorica organicista del “popolo”, e ancorandosi coerentemente ad una prospettiva di collaborazione a sinistra.

Vedremo: con il voto su Rousseau, intanto, sembra sia scattata la nostalgia della purezza delle origini. Ma è una via senza uscita. Da questa vicenda viene però anche una lezione per tutti: pensare di fare a meno di un “partito”, degno di questo nome, per quanto nuovo e originale lo si voglia immaginare, non porta da nessuna parte.