Berlusconi ha ridetto in questi giorni che nel ’94 era «sceso in campo» perché si era sentito in dovere di fare qualcosa contro il rischio che i pericolosi «comunisti» italiani (veramente già «ex», essendo finito il Pci qualche anno prima) andassero al potere.

La libertà democratica, secondo lui, sarebbe stata soffocata con la forza. E oggi – passato il «pericolo comunista», come pare che Berlusconi abbia detto a Carlo De Benedetti – il dovere lo richiama per arginare il pericolo grillino.

Sulla scarsa affidabilità democratica di un partito-non-partito che obbedisce a «un vecchio comico» – parole di Silvio – e all’erede Casaleggio, si potrebbe quasi convenire. Meno accettabile è il parallelo con la supposta inaffidabilità democratica del Pci, per quanti difetti – anche gravi – avesse.

Chi volesse approfondire il tema – in tempi un po’ smemorati come questi – potrebbe consultare l’aureo vocabolarietto sulle «parole del Pci» scritto da Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli (Edizioni Harpo 2017, già recensito su queste pagine da Livia Turco), a cominciare dal titolo Al lavoro e alla lotta. Per lotta, in quell’appello che spesso concludeva i comizi, non si intendeva alcunché di violento. E le autrici, che dopo il ’68 «annusano il femminismo», ricordano come già avessero «serie difficoltà a usare parole così enfatiche».

Una sensibilità, per quanto a volte rimbrottata da dirigenti e da «compagni di base», assai condivisa tra i comunisti più giovani.

Ho fatto l’esperimento di confrontare le definizioni di tutte le parole con riferimenti a contenuti conflittuali e violenti: da conflitto a estremismo, forme di lotta, guerra di posizione, imperialismo, lotta di liberazione, militanza, ora X, rapporti di forza, rivoluzione, servizio d’ordine, spinta propulsiva, terrorismo, tigre di carta, via italiana al socialismo, fino a vigilanza, che è anche l’ultima parola citata nel ricco glossario, seguito da una serie di interviste a donne e uomini che hanno fatto parte del «gruppo dirigente» del Pci.

Se ne ricava – lo sapevo già per antica esperienza personale, ma ne ho trovato puntuale conferma – la quasi maniacale attenzione al rispetto delle forme democratiche e non violente delle iniziative politiche e «di massa».

Anche il mitico servizio d’ordine, composto da compagni «responsabili» e certo preferibilmente robusti, era principalmente destinato a evitare le provocazioni e le possibili degenerazioni delle manifestazioni, innescate per lo più da provocazioni della polizia (con la quale si andava a parlamentare accompagnati da qualche deputato o senatore) e da reazioni sconsiderate dei manifestanti, per contenere le quali era appunto opportuna la prestanza del servizio.

Franca e Fulvia annotano che persino il giovane Giorgio Napolitano ne aveva fatto parte appena iscritto, subito dopo la guerra, prima di una rapida carriera politica.

Naturalmente restavano forti nel Pci la storia e il mito della lotta armata partigiana, ma se la tendenza a non escludere il ricorso a azioni violente per accelerare l’avvento dell’ora X era già stata battuta da Togliatti nei primi anni del dopoguerra, il libro ricorda come nella cultura politica del Pci fosse radicata l’idea, fatta risalire già alle analisi di Gramsci sulla guerra di posizione, che in nessun caso in Italia e in Occidente si sarebbe potuto «fare come in Russia»: la democrazia era un «valore universale».

Al lavoro e alla lotta viene discusso giovedì 25 alle 16.30 alla Sala Salvadori della Camera, Via Uffici del Vicario 21, con Massimo D’Alema, Claudia Mancina, Letizia Paolozzi, Livia Turco e le autrici.