Le impressionanti gigantesche sequoie della Sierra Nevada in California riprese da Hitchcock in La donna che visse due volte sono alte quasi cento metri e vivono da duemilasettecento anni. Niente in confronto ai trecentottantacinque milioni di anni della foresta fossile scoperta sulle montagne Catskill nello stato di New York. Ma è l’uomo che ha preso il sopravvento anche se ha solo trecentomila anni ed è una piccolissima percentuale della enorme massa organica che abita la terra. Primate arrogante, ultimo arrivato, spesso non ha nessun rispetto per i venerabili sovrani, maestri del tempo e dello spazio. Li releghiamo al ruolo di figuranti anonimi che decorano le nostre città con oasi di verde e li sfruttiamo quando danno frutti nelle campagne. Senza preoccuparci troppo se vengono tagliati o bruciati per dar spazio all’urbanizzazione selvaggia. Mettendo in pericolo la nostra stessa sopravvivenza, provochiamo dei veri disastri idrologici perché le loro radici abbracciano il terreno e impediscono frane e smottamenti, inondazioni o al contrario siccità e aumento di gas tossici.

La grandiosa mostra alla Fondation Cartier di Parigi, curata da Bruce Albert, Hervé Chandès, Isabelle Gaudefroy fino al 10 novembre, è un doveroso omaggio ai nostri amici alberi. Per conoscerli meglio con l’aiuto della classificazione del naturalista svedese Carl von Linné vissuto nel Settecento. Per ammirarli nella loro bellezza naturale o trasformata in sogno e nella loro utilizzazione come utensili, maschere, ex-voto. Senza dimenticare la vicenda drammatica della loro attuale devastazione. Quadri, fotografie, documentari, film e installazioni di artisti di diversi paesi, molti dei popoli che abitano le foreste del Chaco e dell’Amazzonia, ma anche europei, asiatici e americani ci fanno da guida lungo il percorso che ci ricorda la voce ritrovata degli alberi e l’eloquenza appassionata dei loro ambasciatori.

Il botanico e biologo Francis Hallé, non ha dubbi: «Quando disegno un albero, quando registro le forme esterne delle piante, ho l’impressione di aver trovato finalmente il mio posto, di fare veramente quello per cui sono nato e dimentico il tempo». I suoi alberi tratteggiati con linee nere o colorate sono costruiti con meticolosa precisione, ma risultano esili, come se si accostasse a loro in punta di piedi per non disturbarli, osservandoli per ore per decifrarne il segreto.

Segreto che il biologo e studioso della fisiologia delle piante Stefano Mancuso scopre nella loro sensibilità e nella loro intelligenza. Gli alberi inclinati di Slope Point nella Nuova Zelanda crescono quasi paralleli alla terra a causa dei venti violentissimi che spirano dall’Antartide. Sul tronco principale del cedro dell’Himalaya spunta un germoglio che con le sue radici si àncora sotto la scorza. La crescita ripete il modello architettonico della specie in cui l’albero portatore diventa una colonna.

I nativi della pianura del Chaco in Paraguay vivono con gli alberi. Chi meglio di loro ne conosce tutte le caratteristiche? Nei loro disegni le piante prendono vita come una singolare cosmologia. L’Albero della pioggia di Joseca, dipinto con pennarelli su carta, ha un tronco diritto e una chioma rotonda da cui scendono dei trattini colorati, più che gocce d’acqua sembrano lacrime. Clemente Juliuz celebra l’importanza degli alberi, della foresta e degli animali, come mezzi di sussistenza e luoghi di rigenerazione per gli umani. Nei suoi disegni in bianco e nero rappresenta una varietà degli animali della foresta come il formichiere e una grande quantità di piccoli insetti. Le loro silhouette ingrandite si staccano in primo piano dagli alberi disegnati meticolosamente con le loro foglie, fiori e frutti che costituiscono il nutrimento degli insetti. «Quando sono nella foresta sento il suo intenso profumo e se piove respiro l’aria fresca. Se sono ammalato vado nella foresta e là l’odore tipico di ogni albero favorisce la mia guarigione».

I disegni degli abitanti del Chaco testimoniano il rapporto tra gli alberi e gli altri esseri viventi e l’intima connessione che si stabilisce tra loro.
Più a sud, in Brasile, sono molti gli artisti che si ispirano alla foresta, rivivendola ognuno a modo suo. Il più noto è Luiz Zerbini che vive a Rio de Janeiro. I suoi elaboratissimi quadri, dipinti in acrilico su tela o su carta, suggeriscono un’immagine totalizzante della foresta in cui coesistono intricate tra di loro le più diverse forme di vita, dalla lussureggiante vegetazione del suolo alla varietà infinita di piante rivissute attraverso l’immaginifica fantasia del pittore. Come Lago quadrado del 2010, un grande acrilico su tela di tre metri per tre, dove ricreate con vivaci colori iperrealistici, sono protagoniste la Couroupita guianensis, la Montricadia, il Nelumbo nucifera, la Typha, la Neoregelia. Il singolo albero, entità a sé, una specie di antenato, è invece al centro dei bellissimi disegni della comunità degli Yanomami che vive a Watoriki, all’interno del Brasile, in cui è ricorrente lo spirito sciamanico impersonato dall’uomo-albero.

Unifica la grande quantità di materiali il Mur végétal della Fondation Cartier realizzato nel 1998 da Patrick Blanc. Un cubo di vetro che riflette le immagini degli alberi che stanno nel giardino e rimandano, come in uno specchio, a quelli che sono all’interno. Il grande cedro del Libano, nume tutelare del luogo, il 261 di boulevard Raspail, è stato piantato addirittura nel 1823 da Chateaubriand e ne è tuttora il monumento più significativo. Tutto è riflesso, l’oggetto e la sua immagine rimandata dai vetri rimbalza dall’uno all’altra attraverso gli spazi tra le foglie e i rami, che quando sono mossi dal vento o percossi dalla pioggia creano un ulteriore senso di vibrante animazione.

Sono molti i cineasti che con diverse prospettive hanno rappresentato la natura. Per la mostra Raymond Depardon e Claudine Nougaret hanno realizzato il film Mon arbre, singolare epopea degli alberi che vediamo tutti i giorni, dando la parola agli uomini e alle donne che gli vivono accanto, che li curano, che li osservano, che piangono per loro, che li ammirano. Ma il fotografo George Leary Love, quando gli hanno chiesto se è possibile fotografare il paesaggio amazzonico, ha risposto con un gran numero di fotografie aeree, le sole in grado di coglierne l’immensità. Spiccano fra tutte quelle riprese dall’alto quando il sole allo zenit colora l’immagine di un rosso inquietante come quello degli incendi.
Ma è ancora una volta la pittura a suggerire il senso del dramma che minaccia la foresta. Nilson Pimenta nel suo straordinario acrilico su tela del 2010 Derrubada feminina coglie l’allucinata apocalisse di una specie di fine del mondo, in cui l’assoluta mancanza di prospettiva rende ancora più coinvolgente lo sterminio della foresta amazzonica con gli alberi tagliati, i cui tronconi sembrano membra umane fatte a pezzi, mentre gli indigeni sono costretti a lasciare le loro capanne e gli animali fuggono in massa come in una specie di arca di Noè capovolta.