«Io, Robert Gabriel Mugabe, in base al paragrafo 96 della Costituzione, rassegno formalmente e con effetto immediato le mie dimissioni». Seguono scene di giubilo incontrollato che dai banchi del parlamento di Harare si trasferiscono subito nelle strade della capitale. Le parole lette nel primo pomeriggio di ieri dallo speaker Jacob Mudenda hanno infine fatto saltare il tappo: canti, balli e caroselli di auto sono proseguiti per tutta la notte, portandosi via questa settimana di incredulità e tormenti di fronte a eventi impensabili fino al giorno prima.

 

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IL 93ENNE PRESIDENTE dello Zimbabwe dopo il golpe  avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 novembre era apparso spacciato. Uno dei golpe militari più strani della storia, con i generali che anche dopo aver messo l’anziano leader ai domiciliari continuavano a trattarlo come il padre della patria che in fondo è stato. Cercando di convincerlo che il suo tempo era arrivato.

Nella sua sterminata carriera Mugabe ha affrontato crisi politiche potenzialmente più gravi, ma ne è sempre uscito indenne grazie alla fedeltà delle forze armate e al controllo esercitato sul partito al potere, il «suo» partito. Stavolta lo scontro si è consumato proprio all’interno dello Zanu-Pf. Dimettendosi in base alla «propria volontà», come si legge nella lettera inviata ai due rami del parlamento, si è risparmiato l’ultima umiliazione, la procedura di impeachment che i suoi ormai ex compagni stavano per presentare.

LA SFILZA DI ACCUSE elencate nella mozione culmina con quella di «aver consentito» gravi abusi di potere a sua moglie, Grace Mugabe. Sostanza politica, insomma, ben oltre i pettegolezzi sulla sete insaziabile di lusso di Gucci Grace e sulla sua «colpa» di avere 40 anni meno del lider maximo. Il licenziamento del vice Emmanuel Mnangagwa era sembrata una mossa propedeutica per piazzare la first lady – appoggiata dai quarantenni del partito, i G 40 – in testa alla corsa per la successione. Se è così, Mugabe ha sottovalutato la fiducia riposta dai militari in Mnangagwa, veterano della guerra di liberazione tanto quanto, o quasi. Il sempre soft ma sostanziale placet all’azione di forza arrivato dalla Cina, che con i suoi investimenti mantiene in vita il paese, ha fatto il resto.

DA EROE DELLE DUE GUERRE, quella d’indipendenza e quella di liberazione culminata con la nascita dello Zimbabwe, Mugabe si è trasformato negli anni in un autocrate iracondo ed egocentrico. Ennesima delusione della cosiddetta via africana al socialismo, si direbbe. Per alcuni almeno ha provato a nazionalizzare le miniere di diamanti. Per altri il controllo delle miniere ha arricchito solo il suo entourage.
Poteva essere Mandela prima di Mandela, ma il parallelo inizia e finisce con il fatto che a entrambi venne negato di partecipare ai funerali di un figlio mentre erano in carcere per le loro idee. Si può aggiungere che in entrambi i casi le promesse all’indomani delle rispettive vittorie sono rimaste in buona parte disattese.

LA REDISTRIBUZIONE delle terre in Zimbabwe è avvenuta tardi e male, con un’azione di forza dei veterani di guerra a cui non era mai arrivato il bottino promesso. Agli espropri seguirono la rabbia di Londra e sanzioni internazionali che hanno avuto l’unico risultato di affamare la popolazione. Numeri iperbolici e paralleli hanno raccontato in questi anni i record toccati da inflazione, debito e tasso di emigrazione verso le township sudafricane, mediamente ostili a zims e forestieri dei paesi circostanti.

Mugabe è stato anche così una spina nel fianco del Regno unito, con le sue sparate anti colonialiste e la decisione di lasciare il Commonwealth nel 2003. All’Onu non ha mai fatto mancare il suo voto contro le guerre, sempre «dalla parte del torto» con il Venezuela chavista, Cuba e pochi altri. Talvolta con il “fratello maggiore” sudafricano, che fin qui ci aveva sempre messo una pezza in nome della stabilità regionale e in base a una logica di alleanze storiche. Ma in questo momento il presidente Zuma ha i suoi problemi e l’African national congress affronta la sua peggior crisi di consensi.

MUGABE HA GOVERNATO con il pugno di ferro e zero rispetto dei diritti dell’uomo. Vero. Come è vero che non è stato peggiore del suo predecessore Ian Smith, ultimo baluardo della minoranza bianca nella Rhodesia razzista. C’è da sperare solo che non sia stato migliore di chi verrà dopo. In attesa del voto dovrebbe toccare all’unico vice rimasto in carica, ma appartiene alla cordata di Grace Mugabe. Il «coccodrillo» Mnangagwa, gradito agli investitori cinesi e forse anche alla Gran Bretagna, che già ieri si auspicava come possibile un ritorno del paese nel Commonwealth, fa sapere che sarà sul pezzo in capo a 48 ore.