Certo non è un bel periodo per l’erede al trono saudita. Quella che doveva essere la morbida e rapida ascesa al potere per Mohammed bin Salman è diventata una mezza agonia. Giornalisti fatti a pezzettini, yemeniti che si ostinano a morire sotto le bombe, pure la Cia e il Senato americano – gli amici di sempre – che lo accusano di tali tremende nefandezze. E adesso il Qatar che vince (sotto il naso: il paese ospite erano gli Emirati arabi, il braccio destro di Riyadh) la Coppa d’Asia. A sorpresa e pure sconfiggendo il super favorito, il Giappone. Mica per un risicato 1-0: la nazionale qatariota ha segnato tre reti contro una.

E allora, in questi casi, non resta che la buona vecchia censura. La vittoria del team del paese rivale non è stata accolta bene nel resto del Golfo, da due anni e mezzo impegnato nell’isolamento e l’embargo dell’emirato vicino. O meglio, non è stata accolta affatto: la stampa emiratina e saudita non lo dice proprio. Svariati giornali ed emittenti tv non hanno più dato notizia del torneo già dalle semifinali, forse subodorando lo smacco. Chi lo ha fatto ha censurato mezzo match: «Il Giappone delude le aspettative», scrive l’emiratino Gulf News. Il compaesano Al Etihad pubblica una foto del team giapponese: «La troppa sicurezza di sé dei samurai ne provoca la sconfitta». Stessa linea editoriale per il Khaleej Times di Dubai: il Giappone ha perso. Ma chi ha vinto? Il quotidiano alla fine lo scrive. All’ultima riga dell’articolo.

La Saudi Gazette ha riportato solo la notizia della denuncia della Federcalcio degli Emirati, sconfitti in semifinale proprio dal Qatar, e poi s’è dimenticata la finale. Ha però dato spazio alle dichiarazioni dell’ex capo della polizia di Dubai, Dhani Khalfan, secondo cui la vittoria del Qatar è stata orchestrata da Israele. Un complotto (ma non erano i sauditi i nuovi migliori amici di Tel Aviv?).

Ma nell’era dei social e del mondo virtuale, i giocatori qatarioti hanno comunque potuto godere del meritato abbraccio delle folle arabe e musulmane. Quelle su cui Doha puntava, dipingendo la vittoria come un successo del popolo. E così dalla palestinese Gaza alla capitale giordana Amman, dal Sudan in piena rivolta anti-governativa al Kuwait neutrale quasi quanto la Svizzera, in tantissimi sono scesi in strada a lanciare fuochi d’artificio e distribuire dolciumi. In Oman hanno pure sacrificato dei cammelli in onore degli eroi qatarioti.

A cui va comunque riconosciuta la perseveranza: in campo senza tifosi (gli Emirati hanno bloccato i cittadini qatarioti alle frontiere, impedendogli di entrare), per giocare ad Abu Dhabi hanno dovuto circumnavigare il Golfo per assurdi divieti di voli diretti. Ci hanno messo cinque ore, invece di una. E una volta sul campo da gioco sono stati subissati di fischi, nel migliore dei casi. Nel peggiore di bottiglie e scarpe, la più umiliante delle offese nel mondo arabo.

Il Qatar incassa e riporta a casa la vittoria, trampolino di lancio verso i Mondiali del 2022, primo paese arabo a ospitare la coppa del mondo di calcio. Per arrivarci preparati l’emiro sta spendendo montagne di riyal, vuole una squadra competitiva e che non sfiguri. Ma a sfigurare è il regime, come gli avversari sauditi violatore seriale di diritti umani, a partire da quelli dei lavoratori migranti impegnati nella costruzione delle infrastrutture per il torneo.

Arrivano dall’India, le Filippine, il Nepal con il sistema della kafala, dello sponsor. Le aziende di costruzioni li “possiedono”: passaporto confiscato per impedirgli di lasciare un lavoro in condizioni di semischiavitù, obbligo di ripagarsi il debito e poi stipendi da fame, sei euro al giorno o 40 euro a settimana per tirare su gli stadi di uno degli Stati più ricchi e lussuosi del mondo. Il resto della giornata lo passano in campi di lavoro, in stanze piccole e sovraffollate, con servizi igienici scarsi e scadenti. Anche qui, tutto censurato.