In una società dominata dagli intensi flussi comunicativi, può essere considerato ancora importante il ruolo rivestito dallo spettacolo, forma comunicativa concentrata e unica? Apparentemente, infatti, il modello dello spettacolo appartiene ad un’epoca precedente a quella contemporanea, nella quale è richiesta ai singoli una connessione costante alla Rete e ai suoi flussi e dove la struttura chiusa che caratterizzava le opere tradizionali (film, commedie, varietà, ecc.) è ridotta a frammenti continuamente circolanti. In realtà, oggi siamo ancora, e più che mai, all’interno di una «società dello spettacolo». Infatti, proprio l’imporsi crescente di un flusso comunicativo che tende ad assorbire e omologare ogni cosa rende indispensabile riuscire ad emergere da tale flusso con eventi spettacolari di grande impatto. Ciò vale per i singoli, costretti a rafforzare la propria presenza nel Web raccontando ed esagerando i dettagli più intimi della propria vita e prendendo conseguentemente come modello di riferimento i divi del mondo dello spettacolo. Ma, più che gli individui, sono le imprese a ricorrere alla formula dello spettacolo e a cercare di catturare l’attenzione di consumatori sempre più distratti per trasformare tale attenzione in valore economico. Non è un caso perciò che oggi si parli sempre più frequentemente di «economia dell’attenzione».

Economia mentale

L’adozione da parte del sistema capitalistico del modello dell’economia dell’attenzione produce delle conseguenze che vanno considerate attentamente, perché non hanno una natura solamente economica, ma anche culturale e sociale. Yves Citton, professore di letteratura all’Università di Grenoble e direttore della rivista Multitudes, ha recentemente raccolto le riflessioni su tali conseguenze di autori provenienti da diverse discipline nel volume L’économie de l’attention. Nouvel horizon du capitalisme? (La Découverte, pp. 321, euro 24). Il punto di partenza delle riflessioni contenute nel volume è l’idea che l’economia tradizionale si è sempre basata sulla ricerca di una massimizzazione della produzione di beni materiali a partire da risorse scarse, mentre oggi invece la situazione sembra essersi rovesciata. Vale a dire che quello che in apparenza succede al sistema economico è che tende a trasformarsi in una specie di «capitalismo mentale» i cui beni sono in gran parte culturali e dunque non pongono particolari problemi dal punto di vista della loro produzione. Al punto che vengono spesso offerti gratuitamente alle persone, come succede ad esempio nel Web con aziende come Google, Facebook o YouTube. La risorsa che è diventata scarsa è invece il «capitale attenzionale» di cui dispongono i consumatori, perché questi sono quotidianamente bombardati da proposte di vario tipo.

Il problema dunque per il sistema capitalistico è di riuscire ad ottimizzare la capacità degli individui di ricevere, assorbire e digerire una produzione sovrabbondante di beni culturali.

Come ha osservato Yves Citton nell’introduzione del volume L’économie de l’attention, la realtà economica e sociale che abbiamo di fronte non è esattamente basata su un capitalismo puramente «mentale», perché la produzione dei beni culturali ha ancora la necessità di sfruttare la manodopera operaia (soprattutto cinese), deve ricorrere a un consumo elevato di energia e non può fare a meno d’impiegare alcuni metalli rari. È vero però che il nuovo modello dell’economia dell’attenzione è venuto ad aggiungersi al modello economico tradizionale, sebbene questo non sia minimamente messo in discussione e anzi continui ad operare attraverso le stesse modalità che ha sempre utilizzato.

Tra i numerosi contributi presenti nel volume di Citton, riveste un particolare interesse quello che è stato firmato dallo storico dell’arte Jonathan Crary, anche se in realtà riprende alcune parti del suo volume Suspensions of Perception, uscito qualche anno fa negli Stati Uniti e non ancora tradotto in Italia e Francia. La tesi di Crary è che il capitalismo contemporaneo è costretto a fare i conti con una «crisi permanente dell’attenzione», la quale ha cominciato a manifestarsi già nell’Ottocento durante la seconda rivoluzione industriale.

La crisi è permanente

È stato l’intensificarsi del processo d’industrializzazione a dare vita ad uno spazio urbano, sociale, psichico e industriale sempre più saturato di stimoli sensoriali e a generare problemi come la necessità di mantenere elevate la concentrazione della mente dell’operaio alla catena di montaggio e l’attenzione del consumatore rispetto ad una produzione di beni sempre più abbondante. Tali problemi sono stati affrontati, ad esempio, con la semplificazione tayloristica del processo produttivo e con strumenti come la pubblicità e i mezzi di comunicazione, che hanno consentito alle aziende di fare arrivare sempre nuove sollecitazioni attenzionali ai consumatori. Non sono stati però risolti, perché, secondo Crary, nell’Ottocento il capitalismo ha completamente trasformato il processo di percezione dei singoli, che hanno visto le loro esperienza caratterizzate da frammentazione, dispersione e vero e proprio choc. Dunque, come d’altronde aveva già sostenuto Walter Benjamin, nelle società capitalistiche si è sempre più imposto un processo di «ricezione in stato di distrazione».

Ma Crary ha anche affermato che il capitalismo tende a spingere ogni giorno in avanti i limiti dell’attenzione e della distrazione, introducendo continuamente nuovi prodotti, nuove fonti di stimolo e nuovi flussi d’informazione, ai quali ogni volta tentano di dare una risposta nuovi metodi di gestione e regolazione della percezione. Come ha mostrato Marx, infatti, il capitalismo crea contemporaneamente le sue crisi e i modi per limitarne gli effetti, in un processo dialettico continuamente attivo. Nelle società contemporanee, dunque, l’attenzione e la distrazione si trovano in una situazione di perenne conflitto simbolico.

Gli spettatori distratti

Crary ha sottolineato inoltre come il modello dello spettacolo crei le condizioni perché i soggetti vengano ad essere immobilizzati e separati l’uno dall’altro, seppure all’interno di un mondo in cui dominano la mobilità e la circolazione. Le nuove tecnologie della comunicazione, infatti, contengono metodi di gestione dell’attenzione che tendono a incentivare la sedentarietà e la dicotomia tra mente e corpo, anche se illudono i singoli promettendo interattività e una piena libertà di scelta.

Avendo imparato a tenere insieme l’attenzione e la distrazione dello spettatore, il modello dello spettacolo continua dunque ad essere notevolmente impiegato nelle società contemporanee. D’altronde, presenta un elevato livello d’efficacia e ciò viene confermato dal successo che ottiene oggi persino un particolare tipo di spettacolo come quello che è basato sulla sofferenza umana. Tale spettacolo è stato messo sotto osservazione dal recente libro Lo spettatore ironico. La solidarietà nell’epoca del post-umanitarismo (Mimesis, pp. 230, euro 20), scritto da Lilie Chouliaraki, docente presso il Dipartimento di Media e Comunicazione della London School of Economics, e curato da Pierluigi Musarò. L’aspetto maggiormente interessante di questo libro risiede nella scelta dell’autrice di focalizzare la sua attenzione soprattutto sugli aspetti comunicativi e mediatici. E cioè di analizzare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni in Occidente per quanto riguarda le modalità con le quali le organizzazioni umanitarie hanno sinora comunicato la solidarietà e l’umanitarismo.

Ciò ha consentito a Lilie Chouliaraki di vedere come negli ultimi anni ci sia stato un passaggio da una rappresentazione oggettiva della sofferenza di altri popoli, presentati come qualcosa di lontano e separato, a una rappresentazione soggettiva, che chiama direttamente in campo gli «occidentali», invitandoli a riflettere sulla loro condizione. Si è sviluppato cioè, come ha scritto Chouliaraki, «un passaggio da un’etica della pietà a un’etica dell’ironia». Il che ha voluto dire abbandonare una morale altruistica, dove la scelta di compiere una buona azione verso chi ne ha bisogno dipendeva dal riconoscimento della comune condizione umana di fragilità, per abbracciare invece una morale individualistica, dove invece la buona azione dipende dalle emozioni e dalle gratificazioni personali che la persona può ottenere. Ne deriva che la solidarietà diventa «ironica», perché è motivata principalmente dal piacere personale dell’individuo. Nasce pertanto anche lo «spettatore ironico», che osserva con evidente disincanto coloro che hanno bisogno di aiuto e associa l’azione rivolta al loro sostegno ai benefici che ne può ricavare in termini di partecipazione emotiva.

Il web dell’organizzazione

Questo cambiamento dipende certamente dai processi di trasformazione in atto nelle società occidentali, che si vanno facendo sempre più individualistiche, ma anche dal fatto che, come ha sostenuto ancora Chouliaraki, la comunicazione della solidarietà è andata progressivamente modificandosi, in quanto si è mediatizzata, adottando pratiche abituali nel campo del marketing aziendale, come l’utilizzo di appelli, di celebrità hollywoodiane, di concerti rock e dell’informazione giornalistica. Inoltre, l’uso sempre più intenso dei nuovi media in questo ambito, se da un lato ha permesso alle persone di praticare azioni momentanee ma efficaci di attivismo online, dall’altro ha progressivamente marginalizzato la voce delle persone bisognose, coperta da una forma narcisistica di auto-espressione individuale. D’altronde, come ha mostrato efficacemente Chouliaraki, sono le stesse strategie di comunicazione delle organizzazioni umanitarie che hanno abbandonato l’utilizzo di messaggi di solidarietà per concentrarsi su espliciti inviti a «scoprire cosa si prova» o comunque a visitare il sito Web dell’organizzazione umanitaria. Cioè a confrontarsi con il suo brand più che con la causa che si trova all’origine della solidarietà.

Insomma, Lilie Chouliaraki ha cercato di rendere i lettori del suo volume consapevoli dell’urgenza di porsi una domanda importante e cioè se sia davvero necessario trasformare la solidarietà in una forma di «spettatorialità narcisistica», come sta avvenendo nelle società contemporanee, o se invece sia possibile tentare di praticare nuovi modi di comunicarla e viverla. Se cioè sia possibile evitare di rendere anche la sofferenza un puro spettacolo.