Quando tre mesi fa uscì questo libricino di Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione (Einaudi, pp.120, euro 10), un amico, con cui se ne parlò per brevi battute in privato, notava che quando un costituzionalista si pone la questione della cultura e del suo ruolo nelle società fa la parte del medico che visita il paziente malato. Malata la cultura? O malata piuttosto la società che ne disconosce il valore? O malata la Costituzione che non la contempli? Ma è poi davvero una questione da porre in questi termini?

Nel libro di Zagrebelsky, è vero, non si dissimula la scarsa considerazione generale di cui patiscono gli operatori culturali (quelli che producono e gestiscono le idee, siano scienziati, artisti, studiosi o insegnanti, o anche professionisti e lavoratori dei più disparati campi delle conoscenze, ma il riferimento è in particolare a quel gruppo di persone che, a volte, viene chiamato «proletariato dell’immateriale»); e neppure si prende alla leggera la loro intrinseca debolezza nello svolgere con efficacia i propri compiti. Ma al di là di ogni accertamento di credibilità e reddito, il breve ragionamento lì svolto fa soprattutto comprendere che una riflessione sull’argomento non solo è possibile ma addirittura necessaria. E non per salvare questo gruppo informe di lavoratori intellettuali, di cui non si è mai potuto fare a meno anche solo per il piacere di prenderli a calci nel sedere (come facevano i re coi loro consiglieri e giullari), bensì per salvaguardare la loro funzione, che è fondamentale per le società e per ogni tipo di comunità. Per questo deve anche essere alla base delle carte costituzionali.

La prima cosa che si legge volentieri in questo libro è l’affermazione per cui le carte costituzionali esistono perché la gente tra di loro non si conosce e non condivide quasi nulla di essenziale. In gruppi del tutto omogenei, infatti, non sarebbe necessaria un’autoregolamentazione della convivenza perché le costituzioni non servono a creare un’identità ma a far convivere le diversità. La seconda cosa che si legge è ugualmente piacevole: per gestire queste differenze non c’è cosa più appropriata della cultura, perché è quella che permette alla gente di creare delle figure e delle forme astratte impersonali e libere (senza proprietà) in cui ci si può incontrare, e si potrebbe dire confrontare (ammettendo anche qualche colpo basso come sul ring) nelle rispettive diversità di pratiche, credenze, obbiettivi e sogni. Zagrebelsky pensa che quelle figure e quelle astrazioni possano essere identificate con le idee. Qualcosa che, a dire il vero, l’umanità intera produce anche involontariamente e senza bisogno di mediatori. E in effetti non è proprio la capacità di gestire, anche materialmente (basta pensare alla tecnica), le idee a fare dell’uomo un essere biologico eminentemente culturale? Sarebbe del tutto normale, allora, che le società si preoccupassero di trattar bene le persone che a vario titolo si dedicano più intensamente di altre a mantenere viva ed efficiente questa vasta zona astratta, immateriale, impersonale e libera, e di lasciarla il più possibile liberamente accessibile.

Ma cosa rende difficile questo obbiettivo e quali sono i pericoli del suo mantenimento anche dentro un quadro costituzionale? L’assoggettamento delle idee a interessi economici, questa in sostanza la risposta di Zagrebelsky, tanto che quando la cultura (tramite i suoi agenti) svolge un servizio a favore di qualcuno o diventa bene strumentale agli obbiettivi di un altro o s’impantana nel conformismo dei molti perde la sua libertà. La forza delle idee, invece, che in un capitolo finale vengono classificate secondo la funzione che svolgono nei vari momenti della vita (classificare, risolvere, comprendere, progettare, immaginare/sognare), sta massimamente nel non avere un valore economico determinabile; sono beni ma non perché siano utili o commerciabili (lo sono sempre anche ma non risiede in questo la loro potenza) bensì per il fatto di dare, di trasmettere, di produrre felicità e piacere, cose che non sono ascrivibili ad alcun valore economico né forse valutabili tra i patti sociali che stanno alla base delle costituzioni.

C’è di buono, anche, che Zagrebelsky non sembra argomentare avendo in mente una Costituzione specifica, ma assai più concentrarsi su un tema generale, di come cioè un sistema regolativo possa contenere le motivazioni più profonde che lo giustificano. Per questo il suo problema, in realtà, si avvicina alla trattazione di un paradosso, molto simile a quello che riguarda la giustificazione di ogni sistema chiuso: come si può descrivere un sistema guardandolo dall’esterno con i soli strumenti che il sistema rende disponibili? Questa qualità filosofica della riflessione gli si può ben attribuire (a parte il fatto che scrive di idee), perché in questo caso si tratta di capire perché una Carta, che nasce essenzialmente per porre un po’ di equilibrio nella distribuzione della ricchezza, della giustizia e dell’esercizio del potere, dovrebbe poi anche occuparsi di garantire, attraverso questi strumenti, cose che esulano, per natura o per esercizio, da quegli scopi o addirittura di proteggere da questi scopi una cosa che non può essere commisurata ad essi.

Attenzione, non si parla di contraddizione ma di paradosso: individuarlo e non dissimularlo consente, infatti, di proteggersi meglio dall’insito rischio di totalità che si nasconde dentro ogni patto costituzionale. Significa che la vita (i beni, il pensiero, le idee) esistono prima di ogni costituzione, e che gli accordi, per quanto ampli e vincolanti la generale disciplina di popoli e di nazioni, servono a tutelare gli interessi fondamentali di ciascuno e di tutti da qualcosa/qualcuno che si muove indifferente verso tutti e verso ciascuno.

Ovviamente, quando si parla di Cultura bisogna aver chiaro che si tratta di una metonimia per indicare in realtà le persone che dedicano la loro vita, o gran parte di essa e magari il loro lavoro, ad attività che aiutano le idee a crescere e a rigenerarsi. Perché altrimenti si rischia di non includere queste persone dentro quel mondo economico che le Costituzioni regolano, quando invece in quanto persone hanno anche diritto a un trattamento economico. L’antipatia che gli intellettuali spesso suscitano e hanno suscitato in passato, soprattutto alle altre persone che come loro sono in possesso di molte opportunità per gestirsi e rappresentarsi in autonomia la propria cultura, deriva dal fatto che troppo spesso sono stati assimilati alle stesse idee con le quali lavorano. Perché la questione è proprio qui: i lavoratori della conoscenza, gli intellettuali, gli operatori culturali, li si chiami come meglio si crede, non posseggono le idee, come fossero dei sacerdoti dell’antico Egitto, ma le rendono più scambiabili, più condivisibili ma soprattutto più accessibili cioè percepibili come tali, e qualche volta le trasformano e le rendono nuove e fruibili.

Magari la cultura potesse far ciò in modo armonico e pacifico. Nella pratica, la cultura funziona davvero e meglio quando costringe qualcun altro a sentire su di sé violenza e seduzione insieme. Quando gli strappa certezze di sapienza, pregiudizi di identità, pacifico godimento dei beni, serena capacità di arbitrio e di giudizio. La cultura e le sue idee sono efficaci se mettono in crisi il patto e la regola, tanto che in fondo sono piuttosto un agente extracostituzionale, se non proprio sovversivo E tuttavia come scordarsi che sono animaletti molto concreti a metter in gioco queste potenze? In effetti, a pensarci con più attenzione, bisognerebbe dire con molta chiarezza che se la cultura non gode di gran stima e fortuna è semplicemente perché non è mai stata né mai sarà oggetto di capitalizzazione: forse i saperi sì, forse le conoscenze sì, ma la cultura è solo lavoro.