Prima ancora che i pezzi di muro lo graffiassero, il Pci aveva già subito una mutazione. L’inizio anagrafico del partito risale al gennaio del ’21. E al mito dell’ottobre è connessa la formazione del suo primo gruppo dirigente, per tanti versi eroico. Ma la nascita, per così dire, logica del soggetto politico è databile solo 1944. Il congresso di Lione e altre fantasiose ricostruzioni di oggi, suggerite pigramente dal Gramsci, c’entrano ben poco. Un partito clandestino in dottrina non è infatti considerato un vero partito, o lo è in un senso molto sui generis. Un organismo deve partecipare al voto competitivo, svolgere attività pubblica per essere una forma-partito.

È quindi il ’44, ovvero la lotta armata contro il nazifascismo e la ricostruzione dello Stato in virtù del moderno Principe, che segna la genesi reale del Pci da avanguardia combattente a partito con vocazione maggioritaria. Le categorie politiche del nuovo partito sono quelle messe a punto da Togliatti: rinnovato mito sovietico, che si proietta dalla epica trincea di Stalingrado all’armata rossa liberatrice che alza la bandiera con la falce e martello sopra Berlino, partito di massa, democrazia rappresentativa, elementi di socialismo graduali. Il realismo politico e il radicamento nella società, l’insediamento nella cultura alta e in quella di massa: questi sono gli ingredienti della giraffa. Capace di pubblicare Rinascita e Vie nuove, Società e il Calendario del popolo, il Pci sapeva come calibrare alto e basso, élite e massa, propaganda e pensiero.

Questo modello di partito, ideato nel ’44 per saldare classe dirigente e popolo, ha retto per quarant’anni e ha espresso un ceto politico di prim’ordine. La assorbente sintesi togliattiana, entro cui si distinguevano sensibilità plurali con differenziazioni anche accentuate come quelle sorte tra Ingrao e Amendola, che si affrontavano sul piano dell’analisi e però lo facevano nella condivisione dei pilastri di una stessa enciclopedia teorica, esplode negli anni Ottanta. Più che con la morte di Berlinguer è con l’elezione di Occhetto alla segreteria che il Pci subisce una irreversibile alterazione del marchio identitario delle origini.

Di recente Occhetto ha dichiarato che egli apparteneva, per cultura politica, a un filone molto eccentrico, eterodosso rispetto al ceppo togliattiano. E, in effetti, come leader ha rivoltato per intero il paradigma togliattiano, cercandone un altro. Da Togliatti a Flores, dal partito di integrazione alla cosa-carovana, dalle sezioni ai club, dalla democrazia che si organizza alla società civile che invia fax: ha tentato, da leader della discontinuità, una metamorfosi che va oltre la riarticolazione degli scopi, evoca una sostituzione dei fini, un altro sistema di credenze.

Quando Veltroni ha asserito che non è mai stato comunista in effetti, sia pure con il ricorso all’assurdo sotto il profilo della certificazione dell’itinerario biografico, diceva a suo modo una verità. Toccava anche a lui celebrare i sessant’anni dell’Ottobre al teatro Adriano o mostrare quanto meno di condividere gli altri riti dell’ortodossia rossa che andavano rappresentati in pubblico. Ma la generazione politica dei quadri del dopo ’68 non ha mai compreso o assorbito il nucleo del togliattismo, che poi è l’anima autentica del Pci. Il canone del realismo politico, secondo una retorica della svolta di Salerno concepita sempre più come un accomodamento furbesco, è stato recepito ma esso, depurato dalla strategia togliattiana di un cambiamento radicale della società, si riduce a semplice ambizione di carriera, a gioco tattico per alimentare incentivi di status.

Con la conquista del comando a Botteghe Oscure, questo nuovo gruppo dirigente non ha cambiato soltanto simbolo, nome, organizzazione. Ha destrutturato anche le «cose» che il Pci ha edificato lungo la storia repubblicana. Quando Occhetto ha inaugurato la «fuoriuscita dal sistema politico» ha intrecciato la rinuncia all’orizzonte del comunismo con la critica alla democrazia «consociativa» togliattiana in una miscela di elementi rivelatasi da subito, con il trionfo annunciato di Berlusconi, micidiale.

La Bolognina non ha soltanto spezzato il mito salvifico del grande salto, per cui ai militanti spaesati, e senza più la meta ultima promessa a chi viene da lontano e va lontano, tocca percepire che sanza speme vivemo in disio. La svolta ha avviato un’onda lunga che ha lesionato le strutture dell’organizzazione statale. A compimento della sua impresa Occhetto non a caso invocò la necessaria «rivolta profonda contro la società politica». Con la sua candidatura a dirigere «una alternativa al regime, non solo alla Dc» aveva appiccato la miccia per far deflagrare ogni cosa.

Lo scioglimento del Pci, unito alla decapitazione giudiziaria e referendaria dei partiti storici, è stato l’elemento più traumatico dell’Italia repubblicana che ha finito per travolgere l’ordinamento, le culture, la società civile. Senza Partito, è ovvio, niente democrazia dei partiti, puro conteggio delle schede. E quindi, a conclusione della nefasta parabola discendente, da un sistema di partito in cui nei tempi migliori la sinistra alle elezioni aveva il volto di Berlinguer, De Martino, Magri e il centro moderato contava su Zaccagnini, La Malfa, Saragat, Zanone, oggi tocca scegliere tra Conte, Renzi, Salvini, Meloni. Una tragedia che affonda le radici anche nel sacrificio del Pci ordinato in nome della rimozione della democrazia bloccata.

Più che la nostalgia di ciò che è venuto a mancare, il sentimento di oggi dovrebbe essere ispirato a un senso di vergogna, nella accezione marxiana del concetto. «La vergogna è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. Chi si vergogna realmente è come il leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso». Per ricominciare un giorno a spiccare il balzo serve ritrarsi in un principio di vergogna per ciò che la chiusura del Pci ha provocato in una repubblica senza più una striscia di rosso e perciò sfregiata e irriconoscibile.