Rappresenterà l’Australia alla prossima biennale di Venezia. Angelica Mesiti (Sydney 1976) esplora la comunicazione non verbale, associando performance, musica, cinema, danza, scultura, sperimentazione e indagine documentaria in opere di bellezza sensibile. il titolo della sua mostra al Palais de Tokyo di Parigi (fino al 12 maggio) ne sintetizza efficacemente la strategia : «Quando fare è dire». L’abbiamo incontrata durante l’allestimento della mostra, che riunisce cinque sue grandi installazioni video realizzate tra il 2012 e 2017

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Tra i singolari musicisti di Citizen Band, sorprende la performance della camerunese Loïs Geraldine Zongo che esegue una percussione acquatica di tradizione femminile in una piscina parigina. Come ha scelto gli artisti?

Vivevo a Parigi da un anno, quando ho assistito, in metro, all’esibizione di Mohamed Lamouri, musicista raï algerno, la cui performance mi aveva molto colpito. Poco tempo dopo, un amico mi aveva descritto la performance della percussionista acquatica in una piscina pubblica. Ho voluto lavorare con loro perché entrambi fanno cose straordinarie fuori dal loro contesto originario. Attraverso le performances mettono in atto una commemorazione delle loro origini, storia, radici nel nostro spazio urbano. Quindi ho cercato in Australia altri artisti immigrati che operassero nella stessa maniera: Bukhu, il musicista mongolo a Sydney e il sudanese Asim che fischia una melodia nel suo taxi a Brisbane.

Che ruolo ha avuto nella sua indagine artistica la sua origine italiana in un paese anglosassone?

I miei nonni sono arrivati dalla Calabria negli anni 30 e 40, e i miei genitori sono nati in Australia. Crescendo nella comunità italiana di Sydney, già allora una grande città multiculturale, avevo l’impressione di avere a disposizione identita multiple, e di poter passare dall’una all’altra, più o meno facilmente, a volte con la sensazione di essere mutante, sempre capace di sintonizzarmi sulle differenze. Ma è stato solo quando mi sono trasferita a Parigi che ho cominciato questo tipo di ricerca artistica, interessandomi alle strategie che adottiamo per farci capire al di là della barriera linguistica. Proprio perché io stessa avevo bisogno di interpretare i gesti e le espressioni facciali quando ancora non parlavo bene la lingua.

In Mother tongue, realizzata per Aarhus capitale europea della cultura 2017, musica, canto e danza appaiono come la lingua universale del dialogo tra comunità diverse, al di là delle barriere culturali. In una sequenza emblematica, il canto degli scolari danesi si mescola con le percussioni dell’orchestra dei boy-scout palestinesi di Gellerup (il quartiere di Aarhus con la più alta densità d’immigrati), quasi una colonna sonora dell’integrazione possibile. Com’è nata quest’opera?

Volevo esplorare la questione del vivere insieme oggi, e del come potremo vivere insieme domani. Quando l’ho realizzata, esplodeva in Europa la crisi dei migranti e il razzismo si generalizzava. Ho concentrato quindi la mia ricerca sulle tradizioni delle diverse comunità di Aarhus. Tutte praticano varie forme di attività collettive che ne riaffermano l’identità rafforzando i legami sociali. Nella tradizione danese, ad esempio, il canto in gruppo è onnipresente nelle occasioni più diverse. E ho decisio di farne il punto di connessione. Allo schermo volevo ricreare questi mondi paralleli che, a volte, non s’incrociano mai. Mentre al suono, ho voluto dar l’impressione che stiano suonando insieme con uno stile diverso. Mi sembrava poi giusto passare dalla collettività alla singolarità, concludendo col canto dell’artista somala Maryam Mursal nel suo appartamento di Gellerup. Prima di rifugiarsi in Danmarca a causa della guerra in Somalia, era una cantante celebre nel suo paese, arrivando qui aveva perso tutto, anche la sua identità artistica. Oggi ristabilita, si esibisce nel mondo intero.

La gestualità come atto di resilienza sembra al centro dell’installazione The Colour of Saying, il coro si esprime in lingua dei segni e una coppia di anziani ballerini esegue il passo a due del Lago dei Cigni con le sole mani.

In questo lavoro continuo a sondare il corpo come sturmento. M’interesso molto alle limitazioni e vincoli, siano essi fisici o sociali, e a come vengono superati. La lingua dei segni ne è un splendido esempio. Ho quindi formato un coro con un gruppo di giovani che si preparano a diventare interpreti nella lingua dei segni; per eseguire in questa lingua la Serenade to Music di Ralph Vaughan Williams, ispirata da Il Mercante di Venezia di Shakespeare, in cui si afferma che la musica delle sfere è impossibile da suonare perché inaudibile. L’idea del passo a due con le mani della coppia di ballerini anziani mi è venuta da una tecnica, sorta di stenografia della danza, utlizzata durante le prove per memorizzare le coregrafie e conservare l’energia. Mi sembrava interessante sperimentarla con chi a causa dell’età non riesce più a danzare come un tempo.

In Relay League traduce l’ultimo messaggio emesso in alfabeto Morse in musica, danza e sculture. Come mai questa scelta?

Sono attratta dalle tecnologie anacronistiche della comunicazione. Forse a causa dei nostri tempi iperconnessi a comunicazione istantanea, m’incuriosisce andare a vedere come tutto è cominciato. L’ultimo messaggio in alfabeto Morse inviato dalla marina francese nel 1997, mi ha sorpreso per la sua carica poetica (« questa è la nostra ultima chiamata prima del silenzio eterno »). Si tratta dell’unica occasione in cui il codice parla di sé, annunciando la sua stessa fine. Sentivo che c’era un forte potenziale artistico e ho voluto resuscitare questa lingua attraverso una creazione collaborativa con ballerini e musicisti.

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L’azione di due operai che trasportano un pianoforte su per la scala elicoidale di un palazzo hausmaniano con esiti musicali a sorpresa è al centro di Prepared Piano for Movers. Perché questa performance come opera finale?

Per lasciare il pubblico con una sensazione di apertura. Faccio musica sperimentale dall’adolescenza, il suono è molto importante nella mia arte. Qui mi sono ispirata al metodo di John Cage, preparando un pianoforte in modo che il suono fosse prodotto dal movimenti di lavoratori non generalemente associati alla creazione musicale.

L’immagine in movimento è altrettanto fondante nella sua pratica artistica. Dopo le installazioni video caustiche realizzate, dal 2000 al 2009, in seno al quartetto di artiste the Kingpins, che cosa l’ha spinta verso un linguaggio filmico più convenzionale?

Volevo arrivare a fare con l’arte quello che il cinema fa cosi bene: favorire la contemplazione, creare uno spazio, un’atmosfera, suscitare emoziani intense. Mi sono quindi riappropriata del linguaggio filmico tradizionale per mettere in opera uno sguardo empatico sulle persone e le azioni che m’interessano. Il linguaggio cinematografico è universale, chiunque sa « leggere » un film. Trovo molto utile che la familiarità di questo linguaggio mi permetta di avvicinare il pubblico al mio lavoro, per poi sorprenderlo col mio materiale. I miei film sono una reazione alla cultura visiva dominante. Per questo metto in essi quello che ho voglia di vedere, di far esistere, nella nostra cultura. Resto comunque molto legata al mio passato di performer, per cui l’esperienza fisica tra il publico e le mie opera è molto importante, e costituisce una differenza maggiore tra le mie installazioni e una proiezione cinematografica classica.

Lei monta tutti suoi film e ha esercitato a lungo come montatrice. Quanta influenza ha sul suo lavoro la sua professionalità in questo campo?

Indubbiamente mi ha portato a fare il tipo di lavoro filmico che faccio. Il montaggio è fondamentale tanto nella fase di ricerca e sviluppo che nella lunga fase di post-produzione, quella che preferisco di tutto il processo, perché ne modello veramente la forma sola col girato. Le riprese sono il frutto di un intenso lavoro collettivo. Sono molto ispirata dallo scambio con persone di pofessionalità diverse, imparo costantemente tanto da loro. La creazione collettiva mi viene naturale, e penso ci sia anche un’inconscia motivazione politica : già con le Kingpins avevamo radicalmente contestato l’idea del Genio maschile che produce capolavori in solitudine nel suo studio…

Con le Kingpins ha remixato i codici dei media mainstream e dei clip musicali, in performances live e installazioni video sovversive, tra cui un “attacco artistico” alla catena Starbucks. Qual è oggi il rapporto tra arte e politica nella sua opera?

Penso che tutto sia politico. Sono molto interessata a mettere in discussione lo status quo. Non sono un’attivista, ma osservo il mondo che mi circonda e lo interrogo col mio lavoro, scegliendo di affrontare argomenti difficili attraverso la sottigliezza, la poesia.

Cosa ci può anticipare sull’opera che prepara per la biennale?

Il titolo è « Assembly ». Sto lavorando con diverse comunità e performers, per indagare un certo tipo di collettivismo attraverso proiezioni multiple, musica, performances, traslazioni, e riesaminare questa necessità umana di riunirsi, di radunarsi. M’interessa esplorare questo modo arcaico e cosi fondamentale che abbiamo sempre avuto di riunirci, per prendere decisioni, per festeggiare, o per trovare una direzione. Sento che è un tema importante su cui riflettere in questo momento, in cui le strutture di potere sono rimesse in questione in varie parti del mondo, non solo in Europa.

Giannina Mura

BOX

La stagione « Sensible » al Palais de Tokyo

Angelica Mesiti, Theaster Gates, Julien Creuzet, Louis-Cyprien Rials, Julius von Bismarck e Franck Scurti sono gli artisti della stagione « Sensibile » (20 fébbraio-12 maggio) del Palais de Tokyo. Sei mostre per indagare i movimenti imprevisibili generati dall’incontro tra culture diverse nel mondo contemporaneo. Trasposizione di gesti e segni, migrazioni, sradicamento, memoria e eredità sono alcune delle tematiche e strategie adottate dagli artisti in mostra, per mettere a fuoco “i divenire imprevisibili dei nostri destini mescolati”.