Parliamo di donne. Mi viene in mente guardando il viso sfrontato di Hannah Schygulla in una vecchia fotografia. Era lei insieme a R.W. Fassbinder la protagonista di Baal, uno dei capolavori proposti questi giorni nella Berlinale Special (regia di Vollker Schloendorff). La foto è in bella mostra sul muro di uno dei pochissimi ristoranti, sarebbe meglio dire una vecchia trattoria, intorno a Potsdamer Platz. Diciamo che in un ristorante «tipico» italiano, tipo pugliese perché lì si mangia solo cucina tedesca «tosta», ci sarebbe stata l’immagine di Padre Pio o un santino della Madonna di qualche monte. Qui c’è Hannah Schygulla che quest’anno è stata «affiancata» dalla foto di Lou Reed – «Il mio idolo» sorride il proprietario in cucina.

Le donne, dunque, ma non «il cinema delle donne», dicitura un po’ insostenibile e destinata al logoramento come tutto ciò che è ingabbiato dal «dettame» del genere. Di personaggi femminili piuttosto, e maschili anche, di relazioni complicate che sempre lo sono, o almeno finiscono per diventarlo. Arrete, ou je continue – sezione Panorama, tra i film migliori visti finora e speriamo che trovi una distribuzione in Italia – è uno di questi casi anche se sin dall’inizio i due protagonisti, una coppia, Emmanuelle Devos e Mathieu Amalric, qui nell’ulteriore conferma di essere i migliori attori del cinema francese, sono già in crisi. Piano piano scopriamo che lei ha avuto un tumore al cervello, benigno per fortuna, che però ha sconquassato inevitabilmente il baricentro della sua esistenza. Il figlio vive da solo e la respinge, sembra quasi seccato dalle sue attenzioni, la spesa, i continui inviti a cena, eppure ogni domenica è a pranzo dai genitori della fidanzatina che si è ben guardato dal presentare alla madre. Col marito è guerra aperta, nessuna tenerezza; piccoli litigi snervanti. Nudi avvolti dagli asciugamani nella cucina, si osservano in silenzio. «Non mi ami più» chiosa lei, e lui risponde forzato. Poi c’è quella tipa, più giovane, che capita sempre in casa col figlietto disabile, di cui Pomme, questo il nome della protagonista, è gelosa. E il corpo non più giovane, l’insicurezza goffa di fronte alle ragazzette un po’ sprezzanti nerovestite elegantissime alla mostra che la trattano con sufficienza, mentre a lei i pantaloni eleganti non si allacciano più e per farli entrare deve sdraiarsi sul pavimento.

Sophie Fillières è una regista tra le più talentuose nella generazione Femis, quei cineasti cresciuti cioè nella scuola parigina, da cui arrivano appunto molti dei cineasti di punta del cinema francese oggi. La sua scrittura (è anche autrice della sceneggiatura) ci porta con leggerezza dolorosa nei conflitti della vita, attraverso il paesaggio emozionale dei suoi personaggi. Nevrotici, spaventati, egoisti, sperduti. Ma soprattutto ostinati a non credere alla fine del loro amore, della loro vita di coppia, del fatto che ormai non riescono più a guardarsi in qualsiasi luogo si trovino. Raccontare la fine di un amore, il suo progressivo sbriciolarsi, insieme all’evidenza che sta accadendo, pure quando si vorrebbe non vederlo, richiede precisione di sguardo e millimetrica consapevolezza delle sfumature di ogni sentimento. Fillières sceglie per farlo la dimensione del quotidiano, quella dei gesti di ogni giorno, delle gaffes spaziali che molto dicono sugli stati d’animo, vuoi le disattenzioni che ti fanno male – lividi, taglietti e incidenti domestici di cui Pomme è vittima privilegiata – vuoi quelle a due, lui che salta sul bus e la dimentica in strada, o quello champagne bevuto per forza in cucina che diventando ghiaccio spacca la bottiglia in mille pezzi. Perché se è Pomme la voce «interiore» del film, il suo compagno Pierre ne è il controcanto. Stessi malesseri e stesse probabili insicurezze di un tempo che passa, nel quale la complicità si è perduta, di una paura dell’invecchiare (insieme fanno ginnastica col ragazzone americano), sia essa la pancia sia una stanchezza noiosa dell’abitudine (non balli più le dice lei, non ho mai ballato risponde lui). Arrete, ou je continue è un film di gesti e lo spazio intorno ai personaggi, un spazio senza alcuna retorica da sentimentalismo sopra le righe o da canzonetta pop. Che piano piano diviene surreale, e porta la donna a «scomparire» nel bosco e l’uomo semplicemente a accettare in silenzio questa assenza fingendo che lei è ancora lì. Con umorismo Fillières ci conduce dentro all’intimità dei protagonisti i, e senza chiederci di schierarci, perché lei non li giudica, e tantomeno li imprigiona. In questa sua nuova variazione sulla commedia – non ha mai fatto mistero della sua passione per Lubitsch – orchestra il tasto del malinteso, lo «slapstick» del sentimento, malinconia e tenerezza, autoironia e spiazzamento. Un tocco lieve in profondità.

Non danno proprio l’idea di starci In grazia di Dio le protagoniste del nuovo film, di Edoardo Winspeare, unico lungometraggio italiano alla Berlinale (Panorama Special), con cui il regista salentino ci riporta a ancora una volta nei luoghi amatissimi della sua terra, girando in dialetto e con attori non professionisti, luce naturale e niente trucco pure se il «dogma» non appartiene alla sua sensibilità visiva. Anche questo è un film di donne, gli uomini non ci stanno, e se si per lo più rispondono a un’immagine «comune»: i ragazzotti inutili del paese che si scopano la ragazza e quando lei rimane incinta la pigliano a schiaffi. Un padre freakkettone odioso che si chiama Crocefisso e la ex moglie, Adele (Celeste Casciaro) dice che meglio non poteva essere per uno così.

Le donne sono anche tre generazioni, la maggiore Adele, appunto, dura e sempre arrabbiata, la minore, Maria Concetta (Barbara De Matteis) , che sogna di essere attrice e in attesa di un provino sul set di Ozpetek, fa la madonna nella recita parrocchiale. Poi c’è Ina, la figlia adolescente di Adele (Laura Lichetta), che vorrebbe sposare un uomo ricco di Lecce, ma intanto sta con tutti i ragazzi (orribili a dire il vero) del paese più per rabbia che per convincimento. E infine c’è Salvatrice (Anna Boccadamo) la madre di Adele e di Maria Concetta, donna piena di fede; col sorriso, che ha cresciuto dal sola le figlie mentre il marito lavorava in Svizzera, e sembra portare in se il sentimento di una accettazione speranzosa nel quale la fede si mischia a una saggezza antica, da contadina. Quando la fabbrica fallisce, Adele si ritrova piena di debiti e costretta da finanziarie e speculatori a vendere casa e a trasferirsi in campagna, nella terra di ulivi davanti al mare che possiedono.

Ma non è un film sull’Italia ai tempi della crisi, pure se appunto il pretesto narrativo è questo, e la crisi che colpisce chi è meno garantito attraversa con riferimenti (forse pure un po’ forzati) la narrazione. E nemmeno un film sul ritorno alla terra, e alla dimensione contadina (che naturalmente c’è …). In grazia di Dio è una storia familiare, è il ritratto di un universo di quattro donne, ciascuna con le proprie frustrazioni , i rimpianti, le aspettative disilluse, la capacità di confrontarsi con i passaggi della realtà. Un film sulla famiglia, e sulle sue relazioni «regolate» da piccole menzogne, nascondimenti, imbarazzi, gelosie, scontri ma anche legami profondi. La madre che tutto governa con la fiducia della sua fede, che appare anche la sola a avere con gli uomini, e in genere col resto del mondo, un fare sereno tanto che infatti si risposerà col vecchio amore. Mentre le figlie, per non dire della nipote, ignorante e senza interessi alcuni se non la piazzetta con gli altri del paese, sono chi aspre, come Adele, chi soffocate; come Maria Vittoria.. Magari quella trama – pure trappola – familiare qualche responsabilità ce l’avrà? Perché poi dalla madre, o almeno dalla necessità di prendersene cura, è anche stritolato il vecchio spasimante di Adele, oggi impiegato a Equitalia…

Precariato dei sentimenti come declinazione della crisi? Anche, visto che tutti stanno a casa con la famiglia, segno dei tempi. E però la linea «matriarcale» dolce e sempre pronta a ricucire la trama tra le figlie e nipoti, per certi versi non appare dissimile da quella patriarcale, al posto dell’autoritarismo c’è la dolcezza che stritola però anch’essa fino a far male. E chissà se quell’abbraccio alla fine tra donne, è un omaggio alla famiglia – seppure allargata – o la consapevolezza dei suoi rischi. Di troppo amore si può anche morire.