Quattromilaottocento caratteri per descrivere quarant’anni di storia fa più o meno un tweet per anno. Difficile. Proverò allora a spiegare perché è stato straordinario viverli e osservarli dai microfoni di Radio Popolare.

Innanzitutto perché Radio Popolare è qui, tutto sommato in buona salute, anche se perennemente bisognosa dell’affetto (ovvero del contributo) dei suoi ascoltatori.

Le altre radio sbocciate alla metà degli anni ’70 non ci sono praticamente più. Erano circa 18.000, contatele oggi. Se Radiopop è qui dipende da due fattori: la scelta del nome – Radio Popolare – chiariva fin da subito che non era una radio di partito, di movimento, di minoranze attive.

In altre parole che la scelta di campo (la sinistra) non andava a discapito della professionalità giornalistica, della creatività radiofonica. La seconda caratteristica fondativa è stata la ricerca di sostegno economico da parte dei suoi stessi ascoltatori: la libertà si paga. E gli ascoltatori fin da subito hanno colto che era indispensabile: per avere i microfoni davvero aperti – e non filtrati – per avere i «corrispondenti» in ogni scuola e in ogni fabbrica, per le telefonate intercontinentali dalla Cina che dava l’addio a Mao o dall’Iran che accoglieva Khomeini occorreva sostenere economicamente Radio Popolare.

Non dimentichiamo che la radio – come tutti i mezzi di comunicazione è nata per esigenze militari – per i suoi primi 50 anni è stata principalmente uno strumento di propaganda, a volte esplicito (Goebbels) a volte soft (Voice of America, Radio Oggi in Italia).

La liberazione delle onde, sancita dalla Corte Costituzionale nel 1976, è figlia di quel periodo di lotte sociali e politiche, di quelle richieste di spazi democratici e di libertà d’espressione. Le radio libere sono stata la risposta più spontanea a quell’anelito. E hanno accompagnato quegli anni così ricchi di cambiamenti: Marco Cavallo rompeva il cancello che chiudeva il manicomio di Trieste e proprio lì nasceva Radio Fragola; a Roma il 7 gennaio 1978 vengono uccisi tre giovani fascisti e Radio Popolare ha il coraggio di chiedere agli ascoltatori di interrogarsi sulla violenza politica.

In un mondo non ancora globalizzato le novità musicali, gli stili di vita, arrivavano dall’estero con più lentezza, magari con pacchi di lp, ma – potevi giurarci – li sentivi girare sui piatti di Radiopop.

Il paesaggio urbano di Milano cambiava: non usciva più fumo dalle ciminiere e in città schizzavano i primi «pony express». La fine del lavoro come l’avevano vissuto i nostri padri si esplicitava nella deindustrializzazione e nella finanziarizzazione: parolacce che avremo dovuto imparare nella sua traduzione fisica fatta di disoccupati, cassaintegrati, prepensionati. Non c’era da annoiarsi anche per le notizie che arrivavano dall’oriente: l’Impero sovietico collassa e Radio Popolare lo raccontava con l’intuizione geniale di Paolo Hutter di contattare gli studenti di italiano di Mosca e Praga, (fantasmagorica la traduzione di un’improvvisata corrispondente dall’Università di Sofia che descriveva i manganelli della polizia come «bastoncini»).

 

Dichiarazione-1990

 

Il vaso di Pandora si era aperto e nessuno è più riuscito a richiuderlo.

Quel duopolio, quella spartizione del mondo tra blocco sovietico e blocco statunitense, era rotto e c’era da raccontarne le conseguenze. Occorreva quotidianamente, instancabilmente aggiornare il linguaggio, valorizzare chi riusciva a liberarsi delle vecchie gabbie ideologiche e cercava interpretazioni più adeguate ai cambiamenti.

E’ stato naturale fare un pezzo di strada assieme al «manifesto», animato dalle stesse esigenze: raccontare le involuzioni della sinistra, le grandi manifestazioni pubbliche contro leggi e riforme sbagliate, il bagno di sangue del G8 di Genova, le primavere italiane e arabe. Il catalogo potrebbe continuare a lungo, citando altri episodi, qualche amico, poche vittorie.

Ma lo spazio a disposizione è quasi finito. Usiamolo per dire che ci impegniamo per continuare a mettere in atto la nostra Dichiarazione d’intenti che rivendica «la lettura critica della realtà, senza emettere sentenze pregiudiziali ma con l’intento di scoprire, verificare, sollecitare, evidenziando ciò che non appare, rifuggendo da mode e conformismi, considerando le contraddizioni come elemento fecondo da conoscere e non esorcizzare, eleggendo come valore ogni spunto di trasformazione che si ispiri ai criteri dei diritti personali e collettivi, valorizzando la creatività inespressa».

Obiettivi che non rappresentano un traguardo ma – appunto – una ricerca continua. E che dunque ha bisogno di almeno altri 40 anni!

Strada facendo prendiamoci anche la libertà di festeggiare il quarantesimo compleanno (i numeri tondi, si sa, necessitano di coccole particolari). Cominciamo domani a mezzogiorno, il 24 dicembre, con una festa in piazza Gae Aulenti, a Milano.

#siateci