In un mondo dove gli esseri umani cambiano letteralmente pelle a intervalli regolari di tempo, un po’ come accade in natura ai serpenti, lasciarsi dietro una parte di sé è ormai un’abitudine. Si cambia pelle pur rimanendo nella stessa vita, con il proprio o la propria compagna, nella medesima casa, seguendo un tran tran cui si è però diventati in gran parte estranei. Ci si adegua, si resta al proprio posto anche se l’eco di ciò che si è stati in precedenza, e soprattutto di ciò che si è provato, si fa sempre più debole muta dopo muta. Ma se questa è la regola generale di una società che somiglia molto a quella britannica di oggi, solo proiettata in un futuro prossimo e appena più accelerata del presente, riguarda tutti ma non Rose Allington. Per lei, ogni «trasformazione» corrisponde ad una cesura, ad una fuga dalla vita precedente e al debutto di una nuova esistenza: cambia pelle e diventa ogni volta una persona, anche se non completamente diversa, decisa ad esplorare altre parti di sé. Una ricerca, o se si preferisce una fuga senza fine all’interno della quale Rose non smette mai di interrogarsi su se stessa e sui brandelli di ricordi che talvolta sembra scorgere tra le pieghe del proprio corpo. Ma Rose è anche una donna d’azione, è stata militare e bodyguard e quando Max Black, la star del cinema che ha amato prima dell’ennesima muta la coinvolgerà in un’indagine serrata sul furto di alcune preziose pelli conservate in una stanza blindata si trasformerà in una detective risoluta. Anche se l’incarico che le è stato affidato ha come obiettivo proprio lei stessa, il suo corpo e il suo amore.

Tra le protagoniste più convincenti delle ultime stagioni del weird e della fantascienza, la scrittrice britannica Aliya Whiteley (1974) intreccia con grande maestria ne La muta (Carbonio, pp. 218, euro 15, 50, nella ricca traduzione di Olimpia Ellero) generi e stimoli, sguardi e quesiti, costruendo una storia che pesca nel fantastico come nel noir pur evocando con delicatezza temi che sono al centro delle preoccupazioni dei lettori in questa stagione segnata dalla pandemia. Nuova prova narrativa di Whiteley, dopo La bellezza (2017) e L’arrivo delle missive (2018), entrambi già proposti da Carbonio, La muta, indicato tra i libri dell’anno dal prestigioso Literary Hub, conferma la qualità e le inquietudini creative di un’autrice fuori del comune.

Aliya Whiteley

Pur intrecciando più generi, «La muta» sembra essere prima di ogni altra cosa uno straordinario romanzo sull’amore, anche se proiettato in un futuro prossimo che somiglia tanto alla nostra epoca segnata dall’incertezza e dalle rapide trasformazioni. È così che lo ha pensato?
Volevo condurre un’esplorazione sul tema dell’amore – una di quelle piccole parole che usiamo per definire così tante cose -, sgombrando però il campo da un elemento che vi è sempre associato: l’incertezza sul sapere o mene se anche chi abbiamo di fronte sta provando la stessa cosa. Si è soliti dire che l’amore può durare per sempre o può essere sconfinato, anche se non sappiamo quando gli altri smetteranno di provare tale sentimento. Invece, nel mondo descritto in La muta l’amore ha un tempo certo, una lunghezza determinata. Si tratta di un contesto che offre maggiori certezze rispetto alla nostra condizione attuale, ma che al tempo stesso definendo un orizzonte in qualche modo certo, quantificabile e calcolabile per l’amore, ne decreta la fine. Perciò, nel romanzo, tutto è destinato a cambiare, niente è davvero affidabile, neppure le emozioni più intense che i protagonisti possono provare: qualcosa che temo risulti famigliare in questo momento complicato a molti lettori e lettrici. Detto questo, sono però grata al fatto che nella vita reale possiamo ancora aggrapparci all’idea che l’amore possa durare per sempre. È un pensiero confortante.

Rose, la protagonista, vive in modo drammatico il rinnovarsi perenne della sua pelle, al punto che finisce per cambiare completamente la propria vita ogni volta. Una condizione che nella società in cui vive equivale ad un’autentica patologia. Cosa rappresenta il suo personaggio?
Rose non può accettare le regole che il mondo in cui vive si è imposto e le combatte esplicitamente. Nel costruire il personaggio mi sono però anche misurata con una sfida: infatti, malgrado la sua volontà, ad ogni muta lei cambia in modo violento, abbandonando le sue vite precedenti. Seguirla lungo questo itinerario è stato difficile, ma anche un vero piacere, perché mi ha costretto a domandarmi ad ogni passaggio su quali aspetti del suo carattere dovessero rimanere costanti e quali cambiare perché la sua figura continuasse ad apparire sincera ai lettori. Alla fine, ho trovato la chiave narrativa del personaggio nell’insoddisfazione di Rose per il proprio passato e per ciò che diventa ogni volta. Del resto, di fronte ad una simile condizione, mentre cambia il nostro aspetto, i nostri sentimenti e la percezione che abbiamo di noi stessi, non cercheremmo anche noi di capire cosa resta, quali parti di noi sopravvivono e quali abbiamo invece perso definitivamente? Era davvero una domanda affascinante a cui cercare di rispondere.

La muta costante della pelle che dà il titolo al libro sembra interrogare un mondo costruito sull’apparenza, opponendo a questa visione l’idea che la trasformazione necessaria riguardi la nostra anima, i nostri sentimenti. Quesiti simili a quelli che ci si sta ponendo di fronte alla pandemia e, su tutti: come rimanere noi stessi in un contesto che ci impone scelte radicali?
Sospetto che sia questa la domanda a cui ho cercato di rispondere. Cambiamo, pur rimanendo noi stessi. Non capisco come possa avvenire, eppure è ciò che accade, ancora e ancora, senza fine. Questo libro può essere letto anche come una vasta esplorazione di tutto ciò. Per un po’ ho studiato biblioteconomia, la disciplina che studia l’organizzazione e il funzionamento delle biblioteche, e gestione delle informazioni e mi sono interessata alle tesi di Nicholas J. Belkin sul cosiddetto «stato anomalo della conoscenza» (Ask) relativo ai sistemi di recupero delle informazioni e al modo in cui gli utenti dei sistemi di ricerca non sanno formulare con precisione ciò di cui hanno bisogno. Spesso non siamo in grado di trasformare immediatamente un bisogno di informazioni in una domanda appropriata. In realtà dobbiamo lavorare a lungo su noi stessi prima di formulare la domanda esatta che abbiamo sempre cercato di porre. Forse quel processo è, di per sé, «il viaggio» che permette non solo di trovare la risposta, ma di essere compresi. E forse, con il mio lavoro, io sto solo cercando di fare le domande giuste.

Nelle sue opere, in particolare ne «La Bellezza», ha indagato il rapporto tra gli esseri umani e il mondo naturale, evocando la possibilità di un’ibridazione, ad esempio, tra gli uomini e i funghi. In seguito ha scritto un saggio intitolato proprio «La vita segreta dei funghi». Anche in questo caso si tratta di temi che, all’ombra della pandemia del Covid-19, frutto di un «salto di specie», interrogano l’impostazione antropocentrica della nostra cultura. La letteratura offre un contributo in tal senso?
Ho sempre scritto molte storie intorno a temi quali l’alterità, il weird, l’inconoscibile: altrettanti modi per interrogare l’antropocentrismo e per porsi costantemente dal punto di vista dell’«altro», a qualunque specie appartenga. È sempre stato questo il mio approccio, che si trattasse di animali, piante, funghi o esseri «alieni». Probabilmente non si tratta di un approccio nuovo, ma forse di una modalità che ora sta acquistando maggiore risonanza e visibilità dato il momento che stiamo attraversando. Inoltre, solo per restare al tema dei funghi – argomento che ho approfondito da varie angolazioni, ci sono una lunga serie di autori che hanno usato questa forma di vita particolarmente strana e articolata per analizzare le forme del dominio dell’uomo sulla natura e le altre specie.

L’indagine nella quale è impegnata suo malgrado Rose Allington, accanto alla fantascienza e al weird. sembra evocare le atmosfere del noir: le incertezze del detective, gli ambienti sordidi nei quali è costretta a muoversi, lo stesso scenario cupo e urbano nel quale opera. È un clima narrativo che la affascina?
Si, assolutamente. Volevo che nella storia fosse riconoscibilmente anche un’impronta «noir». Mi piace l’idea che le persone trovino un po’ tutti i generi nei miei romanzi, anche se per La Muta ho pensato subito a questo: c’è una trama poliziesca, un investigatore privato e vengono commessi alcuni crimini orribili. Adoro immergermi nelle atmosfere di vecchi film polizieschi in bianco e nero come quelli di Humphrey Bogart o Le catene della colpa di Jacques Tourneur, con Robert Mitchum e Kirk Douglas (1947), e apprezzo il modo in cui autori e autrici non riconducibili necessariamente a questo genere utilizzano i canoni del noir per creare un clima di attesa e di disagio: penso ai romanzi di Jeff Noon o a quelli di Lavie Tidhar. Quelle trame intricate, quella solitudine dei protagonisti, quel senso sottile di abbandono e di disaffezione: tutti ingredienti che volevo far risaltare anche ne La Muta.