Con un non-piano che nella pratica intende inseguire sul suo terreno Ryanair, mentre alcuni boatos ipotizzano un futuro prossimo legato a doppio filo a Lufthansa, l’unica certezza dell’ennesima crisi Alitalia è il bagno di sangue per i lavoratori superstiti alle due “riorganizzazioni” degli ultimi dieci anni, costate qualcosa come 12mila posti di lavoro. “La situazione è molto critica – certifica Graziano Delrio – bisogna approfondire il piano e attendere i chiarimenti di merito”. Chiarimenti che avverranno da oggi, a detta del ministro dei trasporti, “con i tavoli tecnici per approfondire numeri e priorità del piano”.
Il problema è che, sulla carta, Etihad e le banche azioniste (Intesa e Unicredit) vogliono portare a casa risparmi per circa un miliardo di euro. E’ questo il nocciolo del non-piano, visto che di investimenti si parla ben poco. Ma soprattutto si è perso tempo. Negli ultimi tre anni, da quando gli arabi sono entrati sulla plancia di comando dell’ex compagnia di bandiera, niente è cambiato nelle strategie: ancora oggi il 70% dei ricavi (scarsi, circa 3 miliardi) arriva dai viaggi a corto e medio raggio, quelli in cui la concorrenza delle compagnie low-cost è imbattibile. Mentre solo il 30% proviene dai viaggi a lungo raggio, per i quali Alitalia ha una dotazione di soli 27 aerei. E altri otto, previsti nel 2021 secondo il non-piano, avranno comunque bisogno di tempo per essere ammortizzati e conquistare nuovi clienti per le rotte intercontinentali.
Bastano questi numeri a far capire perché ieri, nel corso dello sciopero del solo sindacato di base Cub, almeno mezzo migliaio di addetti Alitalia sia sfilato in corteo a Fiumicino davanti ai terminal dello scalo romano. Il tutto in una giornata segnata dallo sciopero, confederale e di base, degli assistenti di volo dell’Enav, che ha provocato l’annullamento di centinaia di partenze.
Nel mentre si attendeva l’incontro fra i sindacati di categoria, l’azienda e i ministri Calenda, Delrio e Poletti. Con la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, che tirava le somme dello stato delle cose: “Siamo molto preoccupati per un piano industriale che, più che un piano industriale, ci pare una sequenza di tagli dell’occupazione e delle retribuzioni. Non siamo convinti che un ridimensionamento sia di per sé un piano industriale, quindi ci apprestiamo a questo confronto rivendicando che ci sia davvero una prospettiva industriale per Alitalia”.
Ma è difficile individuare una prospettiva industriale nella richiesta di 2.037 esuberi per il personale di terra, sia per lavoratori a tempo determinato che a tempo indeterminato (1.338 a tempo indeterminato, 558 a tempo determinato e 141 nell’estero). A questi si aggiungono 400 addetti di volo per i quali la solidarietà difensiva scade a dicembre. In più l’azienda ha chiesto tagli salariali del 28% per i piloti di medio raggio, del 22% per i piloti di lungo raggio, e del 32% per gli assistenti di volo. E continua a non rispondere alle richieste sindacali per il nuovo contratto di categoria del trasporto aereo.
Quanto all’incontro con i ministri, detto dei “tavoli tecnici” che peraltro sono ufficiosamente già in corso dallo scorso fine settimana, va registrata solo una presa di posizione difensiva dell’esecutivo Gentiloni: “Il governo ha fatto oggi un richiamo molto energico all’azienda a non avviare azioni unilaterali mentre si discute – ha spiegato alla fine Nino Cortorillo della Filt – e mi sembra che l’azienda abbia capito”. Perché erano già circolate alcune voci sull’avvio, unilaterale, delle procedure di mobilità.
Per certo da parte sindacale è stato anche sottolineato che una trattativa del genere non può essere condotta con l’orologio alla mano. In altre parole, anche ammessa la possibilità teorica di un accordo, ci vorrà del tempo. Ma è proprio quello che manca all’ex compagnia di bandiera, che necessità di almeno 400 milioni entro Pasqua per poter andare avanti. La metà li metterebbe Etihad, gli altri le banche. Ma quest’ultime solo dopo l’accordo con i sindacati. Che di fronte ai tagli certi di personale, di aerei e di costi, a fronte di investimenti assai fumosi, hanno confermato lo sciopero del 5 aprile prossimo.