Il governo e il Pd volano lungo rotte opposte. Il progetto del governo, esplicitato in coro dal premier Gentiloni, dai ministri interessati Delrio, Calenda e Poletti ma anche da Alfano, che non c’entra niente ma ci tiene a comparire, non piace a Renzi. Il futuro segretario considera anzi seriamente l’ipotesi di usare la ex compagnia di bandiera come leva per strappare quella corsa alle urne che insegue da mesi. La strada che porta dritta alla liquidazione entro sei mesi di Alitalia o alla svendita a Lufthansa, previo spezzettamento, non piace neppure ai contendenti per la segreteria, tanto che sia Emiliano che Orlando stavolta si dicono «d’accordo con Renzi», e nemmeno agli scissi dell’Mdp, che con Bersani bocciano a loro volta le scelte del governo. Ma il vertice riunito ieri sera a palazzo Chigi da Gentiloni, con i tre ministri più Padoan, non sembra disposto a cambiare idea.

Il progetto di Gentiloni, Calenda e Delrio è esplicito: nessuna nazionalizzazione, nessun salvataggio pubblico. Perché? Perché «non ci sono le condizioni», secondo il premier, perché «il management ha sbagliato moltissimo, anche con una certa dose di arroganza, ma quello pubblico non ha fatto meglio», per il ministro dello Sviluppo. Perché «è escluso», secondo il laconico ministro dei Trasporti. Insomma «perché no».

La strada da battersi passa invece, oltre che per la nomina del commissario, per un ponte di sei mesi, nei quali i voli saranno garantiti, e poi per la vendita, probabilmente dopo uno spezzettamento, o in mancanza di acquirenti per la liquidazione. L’ipotesi Lufthansa è meno vaga di quanto non facciano sembrare Delrio, quando commenta le voci sull’interesse della compagnia tedesca con un semplice «nessuna preclusione», o Calenda, quando giudica la cosa «da esplorare». Lufthansa non si è materializzata all’improvviso. L’interesse dei tedeschi era noto al governo italiano e nel Palazzo sono molti a ritenere che l’accordo bocciato dal referendum mirasse proprio a tagliare il costo del lavoro in previsione della vendita, a prezzo e condizioni migliori grazie alla penalizzazione dei dipendenti.

In parte il costo dei prossimi sei mesi verrà coperto dai 300 milioni che erano già stati inseriti nella manovra aggiuntiva, sia pure con scopi diversi. Ma servirà anche un prestito-ponte, che Calenda valuta in circa 400 milioni. Sarà oggetto di una trattativa con la Ue che si è già detta disposta a parlarne.

Sono molte le voci contrarie a questa strategia. In gran parte vengono dall’opposizione, che non ha intenzione di farsi sfuggire una polemica tanto tagliente quanto a buon mercato. Di Maio, per M5S, perora un salvataggio ma senza intervento pubblico, «basta un buon piano industriale», e lo stesso fa Salvini per la Lega. Dirlo non costa niente. Tradurre in pratica sarebbe impossibile, ma quel che importa è la resa propagandistica. Meno lontana dalla realtà Sinistra italiana che non esita a chiedere l’intervento pubblico.

Ma il dissenso che promette tempesta non è certo quello, prevedibile, dell’opposizione. Se a caricare è il reggente del Pd Matteo Orfini, con alle spalle il segretario in pectore Matteo Renzi, il discorso cambia. E Orfini, sul blog Left Wing, va giù durissimo: «Gli asset industriali non si liquidano perché sono il principale strumento di politica industriale di un Paese. Può l’Italia permettersi di rinunciare a tutto questo? Ho seri dubbi e non penso che una decisione di questo tipo possa essere assunta frettolosamente con qualche intervista a caldo di questo o quel ministro».

È una dichiarazione di guerra stilata a nome di Renzi, che si tiene apparentemente in disparte solo perché per martellare aspetta di essere a pieno titolo segretario del Pd. Il rinvio indica che stavolta è deciso ad andare fino in fondo. Non può permettersi che si concluda con un esito disastroso una vicenda che lo ha visto protagonista. Significherebbe smentire la incessante campagna propagandistica imbastita per tre anni e oltre tutto finirebbe per primo sul banco degli accusati. Di certo non gli è sfuggita l’intenzione maliziosa dell’ormai nemico giurato Calenda che ha puntato il dito contro chi «per vent’anni» ne ha fatte «vedere di tutti i colori» ai lavoratori Alitalia. Una lista che non può che includere l’ex premier.

I fedelissimi confermano. Dopo l’incoronazione il segretario attaccherà. Prima di tutto con l’intenzione di smarcarsi da una scelta che sarà in ogni caso impopolare e di mettere sotto scacco Calenda. Ma senza escludere, se le circostanze lo permetteranno, di sfruttare l’occasione per far saltare il banco.