«Credo che i lavoratori non faranno mancare il senso di responsabilità». Dopo la firma del «preaccordo» su Alitalia, l’auspicio della cislina Annamaria Furlan fa capire a chi toccherà saltare o nella padella, o sulla brace. I 12mila addetti dell’ex compagnia di bandiera dovranno votare, fra il 19 e il 24 aprile, su un progetto industriale nebuloso nelle prospettive e doloroso per i lavoratori. Rispetto ai 2.500 di cui l’azienda voleva fare a meno, il «verbale di confronto» certifica la cassa integrazione straordinaria a zero ore per 24 mesi per circa 980 addetti, da avviare poi con ogni probabilità alla Naspi; il mancato rinnovo dei contratti a termine per altri 558; l’uscita dall’azienda di 142 lavoratori all’estero.
Quanto ai tagli degli stipendi per il personale viaggiante, saranno in media dell’8%, rispetto al 25%, sempre in media, chiesto dal management Alitalia. Per le future assunzioni, se ce ne saranno, sarà poi applicato un contratto (Cityliner) più economico per l’azienda.

Il segretario della Filt Cgil, Nino Cortorillo, la vede così: «In questa crisi non abbiamo fatto un accordo ma raggiunto il punto massimo a cui si poteva arrivare. In un’azienda che nel giro di dieci giorni non avrebbe avuto un generico problema di cassa ma il rischio degli aerei a terra, l’alternativa era il commissariamento e lo spezzatino, oppure arrivare al punto a cui è stato possibile, togliendo di mezzo i licenziamenti, come nelle altre occasioni, e chiedendo purtroppo un sacrificio improprio ai lavoratori, perché non è il tema del costo del lavoro la causa dei problemi di Alitalia».
Il risultato della vertenza, che nella notte scorsa ha visto al ministero dello sviluppo economico i segretari di categoria (confederali e alla fine anche di base) i tre segretari generali confederali, tre ministri, e al telefono Paolo Gentiloni, lascia scettico il sindacato di base Usb: «È stata una trattativa basata su un piano industriale giudicato dagli esperti del settore come fallimentare, sostenuto solo dai soldi pubblici degli ammortizzatori sociali, e dal “bancomat” di tagli sul costo del lavoro. Condizionato poi dall’ultimatum degli azionisti “o accetti tutto questo o l’azienda fallirà”, trasformando un momento democratico in una tagliola».
In proposito il ministro Calenda ha subito buttato benzina sul referendum: «Il no costerebbe un miliardo».

Dall’Usb, che chiedeva un intervento statale, un altro rilievo critico: «Era compito di tutto il sindacato, della politica e delle istituzioni fare in modo che il piano fosse un reale progetto di rilancio. Si poteva e si doveva fare. I prossimi giorni saranno decisivi, lavoreremo perché i lavoratori Alitalia possano esprimere nel modo più visibile ed efficace possibile il loro dissenso».
Nel verbale di confronto è specificato che la ripatrimonializzazione dell’azienda sarà per circa 2 miliardi, di cui 900 milioni «come nuova finanza». Dei 900 milioni di nuova cassa, 400 milioni saranno convertiti in azioni da Unicredit e Intesa (da crediti e obbligazioni), e con la garanzia di Invitalia – cioè del Tesoro – se le cose non andranno bene; gli altri 500 in gran parte da Etihad ma anche dai superstiti dei «capitani coraggiosi»: Colaninno, Marcegaglia, perfino le Poste.
Quanto al piano industriale, si parla di una riduzione dei costi per un miliardo entro la fine del 2019; dell’aumento dei ricavi del 30%; di una flotta di breve e medio raggio ridotta di 20 aerei, e di nuova offerta competitiva per il medio e breve raggio. Quanto al lungo raggio – unica strada contro le compagnie low-cost – sono previsti nuovi aerei ma ci vorrà del tempo.
Come buona parte degli addetti ai lavori, anche Stefano Fassina di Sinistra italiana è realista: «Senza adeguati investimenti e partnership industriale, tra pochi mesi saremo al quarto giro di ristrutturazione o svendita degli asset residuali. Il governo, con realismo e pragmatismo, deve entrare nel capitale Alitalia come entra nel capitale dell’Ilva, per garantire gli investimenti e le alleanze necessarie al rilancio. Invece attiva una garanzia di 200 milioni per le banche: un indicatore inequivocabile di insostenibilità del piano dell’azienda».