Il vertice convocato a metà pomeriggio da Paolo Gentiloni fa capire che il non-piano industriale di Alitalia è destinato a una plateale sconfessione da parte degli 11.400 addetti dell’ex compagnia di bandiera. O, in alternativa, a un risultato così incerto da renderlo comunque carta straccia o quasi. Un disastro per il governo, che in questi giorni si era speso con dichiarazioni roboanti: il ministro Calenda aveva subito buttato benzina sul fuoco: “Il ‘no’ ci costerebbe un miliardo”. Il suo collega Delrio non era stato da meno: “Non c’è un’altra soluzione, non ci sono possibilità di nazionalizzazione”. Infine era intervenuto lo stesso presidente del consiglio: “Senza l’intesa sul nuovo piano industriale, l’Alitalia non potrà sopravvivere”.

In realtà il governo non può permettersi il fallimento dell’ex compagnia di bandiera. Anche se privatizzata da anni, Alitalia è rimasta l’immagine della nazione nel sistema planetario del trasporto aereo. “La compagnia è un asset per il paese – ha osservato il pilota Marco Veneziani del sindacato Anp – e il governo deve farsene carico”. Più espliciti alcuni suoi colleghi: “Questo nuovo piano non serve a nulla, e comunque tra nove mesi ci ritroveremo nella stessa situazione di oggi”.

Analisi impeccabile, anche a detta di quasi tutti gli addetti ai lavori. Perché nei primi due atti della tragedia Alitalia, nel 2008 e nel 2014, sia con i “capitani coraggiosi” del governo Berlusconi che con l’ingresso di Etihad nella cabina di pilotaggio, almeno a parole c’erano progetti di rilancio. Venivano declamate strategie d’azione per il futuro, anche solo per giustificare l’espulsione dal perimetro aziendale di circa 12mila addetti finiti su un binario morto, sia pur con robusti ammortizzatori sociali. Questa volta invece la “vertenza impossibile” mancava perfino di una foglia di fico messa a coprire l’impotenza del management italo-arabo di Alitalia, primo responsabile dell’ennesimo fallimento industriale.

Gli stessi sindacati confederali di categoria avevano firmato solo un “verbale di confronto”, dopo aver denunciato le modalità della vertenza: “Basare un piano industriale sul vincolo di un accordo con il sindacato, chiamato ad accettare licenziamenti e tagli retributivi, è un ricatto e non una trattativa”. Così avevano demandato ai lavoratori Alitalia il ‘sì’ o il ‘no’ a un piano che certificava la cigs a zero ore per 24 mesi per circa 980 addetti, da avviare poi con ogni probabilità alla Naspi; il mancato rinnovo dei contratti a termine per altri 558; l’uscita dall’azienda di 142 lavoratori all’estero. Poi tagli degli stipendi per il personale viaggiante in media dell’8%; e per le future, peraltro improbabili assunzioni l’applicazione di un contratto (Cityliner) penalizzante.

Quanto ai progetti di sviluppo, non c’era nient’altro che una lista di buoni propositi per il potenziamento dei voli a lungo raggio, unica strada di fronte allo strapotere delle compagnie low cost sul corto e medio raggio (Italia ed Europa). Ma erano talmente vaghi da far tuttora riflettere Unicredit sulla possibilità di buttare altre centinaia di milioni nelle casse aziendali. Mentre fra il personale non erano sfuggite le anticipazioni su un futuro prossimo che vedrebbe Alitalia inglobata da Lufthansa. Con la conseguente, ennesima emorragia di posti di lavoro.

Risultato: fra il personale navigante (circa 4.000 addetti fra piloti, hostess e steward), circa l’85% ha rigettato il cosiddetto “preaccordo”, fieramente contestato dai sindacati di base Usb e Cub e dagli altri sindacati dei naviganti. Quanto al personale di terra, alle nove di sera lo scrutinio era ancora in corso, ma la tendenza sembrava confermare la bocciatura del “verbale di intesa”. Con una altissima partecipazione al voto, all’87%.

In teoria, secondo il governo e gli azionisti la vittoria del ‘no’ porterebbe al commissariamento e alla successiva liquidazione nel giro di sei mesi. “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?”, ha replicato Francesco Staccioli dell’Usb. Più probabile una ripresa delle trattative, con la conseguente riscrittura di gran parte del non-piano industriale.