Settimana decisiva, quella che si apre domani, per il futuro di Alitalia. Tutto sembra pronto per la chiusura definitiva con gli emiratini di Etihad, salvo per l’impasse che si è creato nel sindacato. Con gli scontri, accesi, continuati ancora ieri tra le maggiori sigle, divise su esuberi e tagli ai contratti dei dipendenti.

D’altronde dal governo è arrivato un ultimatum quanto mai chiaro, ribadito dai massimi livelli: dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, che di fatto sta gestendo alcuni passaggi chiave con il sindacato, e dal premier Matteo Renzi, che due giorni fa ha anche incontrato due azionisti di peso – l’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, e il numero uno di Atlantia, Giovanni Castellucci. Resta infatti intricato il nodo della futura compagine azionaria della compagnia, per il ruolo di Poste, non ancora definito.

Sembra invece, nonostante le scaramucce e le dichiarazioni al vetriolo, in via di soluzione la vertenza aperta con il sindacato: la Uilt, che è forte tra i piloti, per ora ha rifiutato di siglare l’intesa sui tagli alle retribuzioni, forte del fatto che il referendum indetto sull’accordo non ha raggiunto il quorum. Ma in settimana sarebbe fissato un incontro con il leader confederale Luigi Angeletti, e se servirà con lo stesso ministro Lupi – intenzionato a convocare i sindacati in una tornata conclusiva – per tentare di convincere i “riottosi”.

Per questo ieri il ministro dei Trasporti è stato molto pesante con le organizzazioni dei lavoratori: «Solo un marziano – ha detto – capirebbe le divisioni che si stanno verificando nel sindacato». Parole pronunciate tra l’altro entrando all’assemblea nazionale di Ncd, dove Angelino Alfano ha chiesto con estrema chiarezza al governo Renzi di abolire l’articolo 18.

Poi Lupi ha aggiunto: «Non esiste un piano B per l’Alitalia, esiste solo un grande piano A. Questa è la strada che abbiamo davanti: o la crescita o 15 mila persone che vanno a casa».

Un concetto fatto proprio dallo stesso presidente del consiglio: «Tutti si devono rendere conto che l’alternativa è tra 1.000 o 15.000 esuberi. Ma resto ottimista», ha detto Renzi con una formula efficace quasi quanto uno dei suoi tweet.

In realtà più che dai sindacati, Etihad per il momento sembra più preoccupata dal ruolo che avrà Poste. L’ad del gruppo pubblico, Francesco Caio, ha già chiarito che non vuole investire nella vecchia gestione, dovendosi accollare così oneri e debiti, ma che è invece molto interessato – all’opposto – a veri investimenti industriali nel nuovo soggetto che nascerà. A dimostrazione del fatto che Poste non vorrebbe uscire, il fatto che ieri Caio ha contattato James Hogan, ad di Etihad, per parlare di possibili sinergie industriali.

Questa posizione di Poste crea almeno due problemi immediati, cui le trattative svoltesi ancora ieri – e l’incontro dei grossi azionisti con Renzi – sta tentando di dare una soluzione. La prima complicazione è data dal fatto che se Poste prendesse il 5% delle azioni – come si ipotizza – e Cai andasse al 46%, il 49% di Etihad rappresenterebbe una maggioranza relativa, il che potrebbe creare problemi con Bruxelles, le cui regole richiedono una chiara maggioranza non extra Ue. E una concorrente agguerrita come Lufthansa è già pronta ad avviare i ricorsi.

Secondo nodo: le banche creditrici, e più in generale i diversi azionisti di Cai, non vogliono sentirsi “di serie B” rispetto a Poste: perché i debiti e le pendenze del passato solo a noi, e i vantaggi del futuro ripartiti anche con la società pubblica?

D’altronde Poste era già azionista, e a questo punto si prevedono due scenari. Caio potrebbe non partecipare alla ricapitalizzazione, decisa due giorni fa, di 250 milioni di euro, diluendo così la propria quota (ma questo appesantirebbe le uscite finanziarie richieste agli altri). Oppure, si potrebbe creare una newco “cuscinetto” per i soci italiani (Cai e Poste), a durata, in cui ripartire i dividendi in modo differenziato, premiando cioè chi entra subito e a pieno titolo.