È il paesaggio, lo sfondo degradato dell’ampia fascia suburbana all’esterno del perimetro di Londra, che Hilary Mantel introduce subito al lettore di Al di là del nero (2005), il suo nono romanzo (traduzione di Giuseppina Oneto, Fazi, pp. 493, euro 19,00), scritto in una vena molto diversa, più personale (e ‘viscerale’), rispetto a Wolf Hall (2009, Fazi 2011) e Anna Bolena, una questione di famiglia (2012, Fazi 2013), i due romanzi storici – i primi di una trilogia in progress – sui tempi di Enrico VIII, ai quali Mantel deve il prestigioso riconoscimento di ben due Man Booker Prize.

Al di là del nero si ricongiunge invece a I fantasmi di una vita (2003, Einaudi 2006), storia semi-autobiografica di una donna sofferente per una malattia debilitante (l’endometriosi), e assillata dai fantasmi che crede di aver visto nell’adolescenza e da quelli immaginati nella maturità, intristita dal rimpianto dei «non nati». Da questo contorto magma personale, rivisitato con una dose di buon umorismo, nasce forse la figura della sensitiva, l’obesa Alison Harte, protagonista di Al di là del nero, la cui voce interiore ci sembra di ascoltare solo nel breve capitolo iniziale, lì dove – prima di avviare l’ingranaggio dell’intreccio – Mantel tiene a comprimere una lettura del paesaggio di un’Inghilterra di secondo grado («le terre desolate che circondano Londra»), fuori dal cerchio del glamour di una metropoli ‘regale’ e di un paese adagiato nella propria immagine di facciata.

Il ritratto dei suburbi scaglionati lungo il fluire del Tamigi è desolante. «Questa è una terra a margine»: quartieri dormitorio, discariche, canali di scolo, siepi ammalate, pony che brucano nel fango, viadotti e ponti imbrattati di graffiti, nei cui anfratti si aggirano fuggiaschi, emarginati, ministri della Chiesa spergiuri, pedofili «sfiniti», e immigrati, «capri espiatori sfregiati» in fuga dalle città. Questo è anche il paesaggio che la protagonista «ha dentro: l’arena di combattimento, la terra desolata, la sede della guerra civile fra le sue costole», soprattutto quando cala l’ora notturna «del Pendu, l’Appeso che legato a un piede ciondola dall’albero pieno di linfa».

La dodicesima carta dei tarocchi – nascosta a Madame Sosostris, la «famosa clairvoyante» londinese della Terra desolata di T.S. Eliot –, qui scoperta, fa da antifona alla vicenda, quale simbolo di «speranza» e della trasformazione che passa attraverso il sacrificio e la sofferenza a favore di una permeabilità alla ricezione e all’ascolto. È la carta di Alison, la sua carta segreta, sepolta nelle pieghe rimosse della sua infanzia, e quella di cui, più consapevolmente, ella si mette al servizio nel mestiere che pratica: sempre in viaggio su superstrade di periferia, per esibirsi come cartomante o, più spesso, come medium in tournée di «Psychic Extravaganza» per un pubblico interessato al proprio futuro o ai messaggi da parte di chi è già nell’altrove. Sul palcoscenico, in condizioni psichiche dolorosamente sospese (come il Pendu), Alison, la sensitiva, attraversa i confini tra il nostro e l’altro mondo, quello dei defunti: al di là del nero, appunto, territorio abrasivo e spossante per il paranormale che lo penetra, e lo vive sulla propria pelle. I postumi di ogni performance sono logoranti: Alison deve smaltire, assieme alla sofferenza assorbita, i sudori fetidi, gli odori di carni decomposte e le angherie che le infliggono le anime evocate. Perché, infatti, nessuno sa, dice Alison, «della perfidia dei morti, della loro natura incompleta ma pervasiva, del modo in cui si smaterializzano lasciandosi dietro delle parti, del modo in cui si avviluppano agli organi interni dei vivi». Insomma, i morti hanno una natura subdola, perversa, e se erano cattivi in vita si fanno ancora più cattivi da morti, e se erano buoni diventano maliziosi. Ed è il paranormale che ne subisce le conseguenze.

Nonostante l’attenzione agli affari, curati dalla socia Colette, Alison non è un’impostora. Nelle sue serate a tu per tu col pubblico, ella sa dosare bene capacità di intrattenimento, intuizioni psicologiche, ovvietà standardizzate, e autentiche doti extrasensoriali. Soprattutto, lei il mondo degli spiriti (per lo più maligni) lo conosce di prima mano, e i «demoni» li porta con sé nel suo cammino di ogni giorno tramite il suo «spirito guida», l’abietto, sconcio e maleodorante Morris, un ex malfattore, dal quale Alison bambina aveva subìto molestie, e che ora rifiuta di stabilirsi nell’aldilà, continuando a vivere come ombra senza corpo visibile (se non a Alison) nel mondo dei vivi, per tormentare la sua antica vittima. Con Morris spesso si manifestano anche altri componenti-spiriti di una gang di criminali che Alison ricorda vagamente in combutta con sua madre – di professione prostituta – nella gestione di oscuri traffici da schietta malavita inglese, coloriti da un altrettanto autentico e paradossale horror di sapore «gotico» (una testa di donna mozzata nella vasca da bagno, mastini che si nutrono di carne umana, un uomo con le gambe spezzate). Eppure, nonostante la sua malvagità, Morris sarà la guida inconsapevole che porterà Alison a raschiar via il rimosso dalla sua memoria, fino a esporre i terribili traumi dell’infanzia (e le rare bellezze, come il tenero fantasma della vecchietta Mrs. McGibbet): un processo, confuso fra eventi reali e visioni forse immaginate, dal quale infine, anche grazie al libro/interview che Colette le va confezionando, ella uscirà risanata.

Il momento clou del romanzo è la morte di Diana. Mantel sa che qui tocca il cuore dell’inglese medio – oltre a quello dell’audience e dei clienti di Alison – e lo inzucchera con ispirate pennellate postmortem. Nel 2005 la «dispettosa» principessa deceduta, e forse assassinata, è ancora un buon ingrediente da proporre al mercato, soprattutto se si mette in scena, prima di ogni replay, la folle corsa dentro il tunnel, al di là del nero, che Alison vive in diretta nella propria psiche: «Sta salendo in macchina. Si sta mettendo la cintura di sicurezza – no, non se la sta mettendo. Stanno scherzando, non hanno la minima preoccupazione al mondo. Perché vanno da quella parte? Oddio, Oddio, stanno sbandando!». Bisogna «telefonare alla regina», grida Colette, prima che l’incidente si compia. Il bathos, forse compiaciuto, si smorza nel commonplace moralista, quando la radio conferma la realtà dell’evento: «che s’immaginava una come Diana? – commenta Colette – C’era qualcosa di assolutamente giusto in tutto questo, di assolutamente dovuto. Era bellissimo il modo pessimo in cui era finita».

È chiaro che, nonostante la simpatia per la deceduta Regina di cuori – una buona carta da giocare nella vecchia Inghilterra –, Mantel non risparmia frecciatine sornioni alle maestà britanniche (lo fa tuttora pubblicamente), anche per bocca dello spirito bizzarro e smemorato di Diana, o di quella più stagionata di un certo signor Scuotilancia (Wagstaffe, nell’originale) un amichetto del demone Morris, cui Mantel lascia l’invenzione di frammenti di versi perfetti e memorabili su «Questo superbo trono di re, quest’isola scettrata» («questa scettrata minchia», corregge Morris): «questa terra di sovrani, questo soglio di Marte / novello Eden, quasi un paradiso / … / è ora sommersa di vergogna, / inzaccherata d’inchiostro, impastoiata da infami scartoffie …». È John of Gaunt che parla – con rimpianto e cuore spezzato dal ricordo di glorie passate – nel Riccardo II di Shakespeare. Mantel ne approfitta. Quattrocento anni dopo il lamento può suonare ancora accorato, anche dall’aldilà.