Un uomo e un ragazzo aspettano in silenzio, gli occhi fermi sull’orizzonte della vegetazione tesi a ascoltare i rumori impercettibili: un calpestio d’erba, un sussulto improvviso, segni che rivelano il passaggio degli animali. Chi sono?
Ismael vive in un furgone, la sera rientra e insieme a un amico accende il motore per riscaldarsi nell’aria gelata dell’inverno. È un migrante, vive in Francia da venticinque anni, fa il meccanico ma non ha documenti, e da quando è arrivato nemmeno una casa. Intorno a lui palazzoni anonimi, un piazzale che potrebbe essere ovunque in Europa. Dove siamo? Nous di Alice Diop comincia con un sentimento di spaesamento che entra nelle immagini, nel modo in cui si susseguono, in ciò che mostrano, nei paesaggi che attraversano dove gli elementi riconoscibili spariscono in una dimensione più misteriosa. Cosa rappresenta dunque il «Nous» del titolo, a quale «Noi» si riferisce? La Francia oggi e insieme l’Europa interrogando il significato di appartenenza e di comunità, le fratture identitarie e gli stereotipi della rappresentazione del mondo; come l’immaginario viene forzatamente piegato a un discorso politico in cui è più facile lavorare con dei «punti fermi» – periferie/centro, radicalismi islamici /marginalità – invece che interrogare nel profondo conflitti, contraddizioni, e molteplicità del presente.

Da qui comincia invece il lavoro di Diop, quattro anni di riprese, un lungo montaggio per un viaggio che ha come riferimento metaforico e molto concreto al tempo stesso il tragitto della Rer B, la linea che unisce le banlieues parigine passando per geografie e composizioni sociali molto diverse. Dalle zone residenziali di ricchi nostalgici dei costumi della monarchia agli Hlm, le case popolari, e poi una piccola e media borghesia, i migranti; persone e voci in cui incontriamo anche quella della regista, le sue memorie di ragazzina della banlieue, la voce del padre emigrato in Francia dal Senegal, qualche fugace immagine della madre ripresa durante una festa familiare dalla sorella quando erano ragazzine. Oggi la sorella assiste gli anziani a casa, anche ognuno di quegli interni è una parte del nostro tempo.

«Il riferimento principale è stato un libro di François Maspero, Les Passagers du Roissy Express, che racconta il viaggio di uno scrittore sulla Rer B. A questo si univa la mia storia personale che appartiene ugualmente a quel paesaggio, sono nata a Aulnay-sous-Bois, una delle fermate del treno, e tra quelle pagine avevo ritrovato molto della mia esperienza di ragazzina cresciuta nella periferia degli Hlm da cui poi mi sono allontanata per approdare a Parigi grazie agli studi, che però è rimasta al centro del mio lavoro di cineasta. Il percorso del treno crea un universo nel quale le persone che lo abitano sono legate senza saperlo: condividono lo stesso territorio e non si conoscono eppure loro malgrado formano una comunità. Era su questo che volevo lavorare» dice Alice Diop. Parliamo su zoom, Nous che ha vinto Encounters alla Berlinale sarà presentato alla prossima edizione del parigino Cinéma du Réel online (dal 15 marzo).

La lavorazione è stata molto lunga, quali direzioni hai seguito e cosa ti ha portata a «Nous»?
Il libro di Maspero mi è tornato in mente qualche anno fa, dopo gli attentati terroristici a Parigi che hanno messo in luce una frattura profonda nella società francese, che forse era già lì a cominciare dall’esclusione di una sua parte, di chi viene dai luoghi in cui ho vissuto io ma che non ha avuto le mie stesse opportunità. Si parlava di radicalizzazione islamica delle banlieues, e qualche giorno dopo la grande manifestazione a Parigi «Liberation» aveva titolato: «Noi siamo un solo popolo». Ma a chi si riferiva quel noi? Quali erano le persone che lo formavano? Ho ripreso in mano il libro di Maspero per capire meglio cosa fonda il sentimento di una comunità. Questo «noi» è inconsapevole, è fatto di gente come le persone del film che deve trovare un modo per stare insieme – da chi pratica la caccia reale mettendo in scena le ritualità del passato a chi invece dorme in un furgone da venticinque anni ai ragazzi che passano l’estate nella banlieue e cantano Edith Piaf. Ma questo è il nostro mondo, e anche se può sembrare una provocazione per me tutti loro sono legati, sono parte di una comunità. Il percorso del treno è pieno di memorie, è geografico e simbolico, ma continua a porre lo stesso interrogativo: cosa significa quel «noi»?

Come hai lavorato con le persone che incontriamo lungo questo viaggio?
Era molto importante per me mostrare verso tutti, anche i più distanti da me, la stessa empatia che ho nei confronti della mia famiglia. Quando guardo non giudico – non è questo che deve fare un regista – ma accolgo ognuno come parte di una comunità a cui appartengo anche io. È un punto importante soprattutto adesso: alla questione identitaria oppongo l’immagine di una storia e di un territorio comuni. Se penso a quando mio padre è arrivato in Francia e alla vicenda di Ismael adesso, sicuramente per mio padre c’erano maggiori possibilità, la sua è stata una vita molto dura ma come dice nel film è riuscito a fare quello che voleva, a comprare una casa, a far studiare i propri figli. Nella Francia del 2021 le cose sono molto più difficili, le persone arrivano da molti paesi, altri sono nati qui almeno da due generazioni eppure il dibattito sulla comunità si rifiuta e ai ragazzi che chiedono l’eguaglianza, come nella manifestazione contro l’assassinio di George Floyd, in cui c’erano giovanissimi asiatici, neri, bianchi, arabi il governo ha saputo rispondere soltanto con una legge contro il «separatismo» religioso. È assurdo. Per me la società in cui viviamo, in Francia e altrove, è formata dai borghesi, dalle élite, dai migranti, da quelli che votano Le Pen, io ho la stessa curiosità quando mi avvicino anche se poi è chiaro che l’Fn sono miei nemici. Per questo ho voluto filmarli, sono mondi che si scontrano, che fanno fatica a combinarsi ma qui c è il senso del nostro tempo, del «noi».

La geografia urbana che costruisce il tuo film ci sorprende, a cominciare dalla banlieue che sfugge a qualsiasi stereotipo dell’immaginario per rimanere in una quotidianità molto semplice.
La banlieue viene raccontata quasi sempre in un unico modo come se oltre la cifra giornalistica o sociologica non ve ne fossero altre possibili. Di solito «banlieue» equivale a «violenza», che sicuramente è un aspetto ma non il solo. È che questa rappresentazione conferma la divisione, «noi»/«loro» che è dominante quando se ne parla. Spostare lo sguardo, e quindi rivedere l’immaginario contro gli stereotipi è un’affermazione politica perché l’immaginario ha una funzione politica, e in questo caso rimanda al superamento di quel «noi»/«loro» in funzione di un noi collettivo. Coltivare gli stereotipi significa anche mantenere certi privilegi ignorandone le conseguenze. Quando ho iniziato a preparare il film camminavo da sola, accompagnata dal libro di Maspero. Non sapevo ancora cosa cercare, chi avrei incontrato, poi ho iniziato a capire quali delle persone che vedevo potevano diventare personaggi. In mente avevo i racconti di Raymond Carver, mi piaceva l’idea di comporre un affresco della società attraverso dei frammenti, delle piccole storie che si sono accumulate nei quattro anni di riprese. Ciascuna di loro è anche un po’ un film a sé, per questo il montaggio è stato fondamentale.

Hai utilizzato i tuoi archivi in un incontro tra il presente e la tua memoria che è anche quella delle immagini.
Era molto importante questo passaggio perché anche io sono parte di questo «noi». Facendo il film ho capito meglio la necessità di dare un’immagine a persone che nessuno fa vedere come i miei genitori. La loro è una storia che si deve raccontare, e siamo noi figli a doverlo fare.