È un’opera la cui stesura è durata trent’anni (1970 – 2001) il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile di Alice Ceresa, che ora esce nuovamente in libreria in edizione ampliata e, come la prima del 2007, per i tipi di Nottetempo (pp. 180, euro 15). Un’opera incompiuta, pensata, ripensata, sottoposta a un continuo lavoro di revisione, e però mai abbandonata dalla scrittrice italo-svizzera: oggi abbiamo l’occasione preziosa di poterla leggere – o rileggere – grazie al lavoro rigoroso e acuto di Tatiana Crivelli, che ne cura l’edizione, e di poterne arricchire la lettura grazie alla pubblicazione di un altro libro, Abbecedario della differenza. Omaggio ad Alice Ceresa (sempre per Nottetempo, nella collana «gransassi», pp. 198, euro 8), a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, che col Piccolo dizionario si mette in relazione, viva e incarnata, grazie al contributo di ventisei donne e tre uomini che riscrivono, dialogandovi, molte delle voci del dizionario ceresiano.

La circostanza è davvero notevole, e felice: l’uscita doppia e combinata di questi due libri consente di rimetterci in ascolto di una grande autrice, troppo spesso dimenticata, e di riflettere con lei e su di lei assieme ad altre e altri, una comunità che si interroga sul nostro presente proprio a partire dall’alfabeto ceresiano. Lo fa, nel gioco di definizioni e rimandi, rispettando la concisione originaria del progetto di Ceresa, ma creando un vero, vivace, dialogo a tu per tu con la scrittrice a cui si rivolgono di volta in volta, con toni e posizionamenti differenti, studiose, scrittrici, critiche, da Monica Farnetti a Liliana Rampello, da Paola Bono a Maria Rosa Cutrufelli. E non mancano le voci costruite esplicitamente, anche nella struttura, come conversazioni: quella presente e viva fra Laura Marzi e Francesca Maffioli, e quelle in spirito, non meno vive, di e con due figure importanti del pensiero e della pratica femminista italiana: Rosetta Stella e Simonetta Spinelli.

In che modo le voci «Animale», «Famiglia», «Femminile», «Morale», per citarne solo alcune di quelle composte da Ceresa, continuano a parlarci? Quanto della sua tenacia decostruttiva, e della sua sistematica disobbedienza alle consuetudini e ai codici normativi, ci è utile e necessaria per interpretare il mondo che ci circonda?
«Famiglia: estrema cellula amministrativa dell’organizzazione patriarcale», scrive Ceresa nel Piccolo dizionario, e continua con spietata, drastica, ironia: «La famiglia non ubbidisce a nessuna legge naturale e questo spiega perché si disgreghi non appena ne sia allentata la coercizione e pertanto la credibilità». Basta, in effetti, leggere queste poche righe per sentire come la trattazione ceresiana ci riguardi e illumini – anzi, faccia scintillare, come pietra focaia – zone del nostro presente, in tempi in cui la parola famiglia accostata all’aggettivo «naturale», viene continuamente impugnata da partiti e individui per rafforzare ingiustizie e, per l’appunto, diseguaglianze. O si veda alle voci «Femminile-Femminilità», in cui Ceresa argomenta: «non è necessario che la femminilità sia innata, necessario è soltanto che venga rispettata con l’andare degli anni la femminilità viene pertanto insegnata dapprima dalla famiglia, poi dalla scuola e da tutti i mezzi di comunicazione di massa e meno, dagli usi e costumi in vigore e infine rispettata dall’industria dell’abbigliamento e dai parrucchieri per signora» e conclude «la femminilità, oltre essere un modello di identificazione è dunque un modello di comportamento e di acconciatura con il quale generosamente l’uomo indica alla donna come debba truccarsi per non dargli fastidio nell’esplicazione della sua mascolinità».

L’attacco è diretto, il sarcasmo urticante: per quanto molti passi avanti siano stati fatti negli ultimi cinquant’anni grazie ai movimenti femministi, queste parole ci parlano ancora, ci convocano, ci entusiasmano anche. È entusiasmante osservare la padronanza e l’acutezza con cui Alice Ceresa colpisce di punta e di taglio il corpo abnorme e asfittico del patriarcato, è appassionante, al contempo godibile, seguire i passaggi impietosi e inesorabili dell’argomentazione ceresiana, «l’esplosione irrisoria» di questa «opera di furore e ironia» – come la definisce nella postfazione al Piccolo dizionario la compianta Jacqueline Risset.
Ed è in effetti questa ironia esplosiva – che contiene e trasporta tanto il dolore, quanto l’indignazione, sempre perfettamente bilanciati, mai vittimistici, mai enfatici – una delle caratteristiche principali di tutta la scrittura di Alice Ceresa, una scrittura che «fa a pezzi» il reale, nei suoi aspetti conformistici e repressivi, ma che da tale decostruzione – feroce, implacabile, precisissima – trae fuori frammenti vivi, quintessenziali, che si trasformano in altrettanti punti di vista da cui osservare il mondo, e raccontarlo ineditamente.

È quanto accade nel suo primo romanzo, La figlia prodiga (1967), in cui Ceresa racconta con uno stile inimitabile – in un libro senza trama e quasi senza personaggi – la parabola di una figlia disobbediente che, a differenza dell’illustre precedente maschile, non dissipa i beni materiali paterni per poi essere riaccolta, piuttosto si dedica a dilapidarne gli insegnamenti, le norme, le aspettative, le coercizioni. Per questo sperpero non c’è riassimilazione, né perdono possibile. «Che cosa può sperperare una figlia?» – dice Ceresa – «Ha un solo patrimonio: il suo dover essere. Brava, buona, gentile, ubbidiente, vergine eccetera. Questo è il patrimonio di famiglia. E se non l’accetti sei una figlia prodiga».

Dilapidare questo patrimonio significa innanzitutto, per Ceresa, assumere «la differenza femminile e l’inuguaglianza come nucleo generativo del proprio scrivere» (lo scrive Laura Fortini nel suo saggio introduttivo all’Abbecedario della differenza sulla «poetica della prodigalità»), poi, provocare una doppia detonazione: quella dei nuclei dell’organizzazione sociale-famigliare, e quella delle strutture e dei codici narrativi. Non è facile, costa caro, eppure Alice Ceresa lo fa continuamente, rompendo le trame, rovesciando paradigmi e norme, addirittura utilizzando il genere «dizionario» – che nella definizione e codificazione trova la sua ragion d’essere – per farlo esplodere dall’interno mostrandone tutta l’arbitrarietà, l’ingiustizia, l’ipocrita neutralità.
Nel 1991, sulla rivista «Tuttestorie», Alice Ceresa dichiarava: «Io faccio una scelta. Nel mio sguardo trattengo solo ciò che mi sembra terribile e che è facile, troppo facile dimenticare». Se è vero che leggere Alice Ceresa comporta uno sforzo di applicazione, si pensi a che dono è per tutti, ancora oggi, il suo lavoro di scavo e setaccio, la sua lucida e tenace concentrazione su ciò che molti preferiscono dimenticare. In un mondo dove pubblicare libri diviene sempre più facile, e leggere sempre più un passatempo, dove ogni giorno dire tutto e il contrario di tutto sembra non avere più conseguenze, la voce di Alice Ceresa ci impegna, ci pungola, ci costringe a metterci in discussione. Ci ricorda che dobbiamo fare delle scelte.

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DUE LEMMI INEDITI Per l’«Abbecedario della differenza» (nottetempo) a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, hanno contribuito alla redazione dei lemmi filosofi, filosofe, scrittrici, scrittori. Presenti anche due voci inedite della stessa Alice Ceresa: «Deserto» e «Prossimo». Contributi di: Eleonora Adorni, Paola Bono, Barbara Bonomi Romagnoli, Cristina Bracchi, Leonardo Caffo, Tatiana Crivelli, Maria Rosa Cutrufelli, Tristana Dini, Monica Farnetti, Francesco Fiorentino, Laura Fortini, Annetta Ganzoni, Valeria Gennero, Maria Teresa Grillo, Francesca Maffioli, Roberto Marchesini, Laura Marzi, Gianna Mazzini, Teresa Numerico, Letizia Paolozzi, Alessandra Pigliaru, Liliana Rampello, Nadia Setti, Simonetta Spinelli, Rosetta Stella, Stefania Tarantino, Ida Travi, Chiara Zamboni, Patrizia Zappa Mulas.