The Greatest se ne è tornato in cielo. Il campione che ha cambiato nome, vita, religione e il mondo del XX secolo. Forse lo sportivo più famoso del mond, quello che ha influenzato diverse generazioni di attivisti, dall’Africa alle Filippine ai ghetti di Soweto e Harlem. Un leader afroamericano sul ring, in tv, nelle strade, una figura esemplare a favore dell’eguaglianza, della libertà e della pace. Combatteva da oltre 30 anni col morbo di Parkinson, frutto della sua prima vita, quei terribili colpi incassati in una lunga e fortunata carriera, conservando però quello sguardo intenso che incatenerà Mandela e Wojtyla, Obama e Tyson.

La sua prima straordinaria apparizione alle Olimpiadi di Roma, nel 1960, dove vince la medaglia d’oro nella categoria dei mediomassimi, a soli 18 anni incantando per il suo stile, una boxe efficace e avvolgente. Quattro anni dopo diventa campione del mondo, un po’ a sorpresa, battendo il colossale picchiatore Sonny Liston, per abbandono alla settima ripresa con una condotta brillante e veloce, prontezza di riflessi e gioco di gambe, girando intorno all’avversari. Nella rivincita, al primo round, ci sarà il famoso «Phantom Punch», un pugno veloce e fulminante che manda direttamente al tappeto lo sfidante da 110 chili, un colpo d’incontro difficile da vedere e da conseguenze devastanti.

Da quel giorno è « il labbro di Louisville», il pugile che danza come una farfalla e punge come un’ape, l’uomo che nelle conferenze stampa prima degli incontri inventa rime e battute, sull’esempio delle Dozens, delle filastrocche verbali, il gioco da strada preferito da adolescenti e militanti.

Per tre anni, fino al 1967, si sbarazza, con bravura e intelligenza, di tutti gli avversari che l’universo pugilistico statunitense gli piazza davanti sul quadrato, per dare una lezione a quel linguacciuto boxeur, nato Cassius Clay nel 1942 in Kentucky è convertito all’Islamcol nome di Muhammad Ali. Incapace di fermarlo tra le sedici corde, l’America di Lindon Johnson e della guerra in Vietnam, lo accusa di renitenza alla leva e gli toglie titolo è licenza per combattere.

Ali ha solo 25 anni e si è avvicinato al Black Pride, l’orgoglio afroamericano, le battaglie antirazziste e per i diritti civili che lo porterà a dire: «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro». Il suo rifiuto di fare la guerra in Indocina sarà pagato duramente con l’esclusione dal mondo dello sport ma le sue convinzioni non vacillano anzi diventano ancora più salde e radicali.

Il suo ritorno avviene nel 1971 vincendo contro Quarry e Bonavena prima dell’incontro del secolo con Joe Frazier, il campione in carica; un match pesantissimo, sulle quindici riprese dove Ali andrà al tappeto all’ultima ripresa chiudendo però in piedi, sconfitto ai punti. Nel gennaio 1974 la rivincita, stavolta vince Ali ai punti, dopo altri terribili e potenti scambi ma la corona dei massimi era appannaggio di George Foreman, pugile di potenza suprema, che aveva selvaggiamente picchiato sia Joe Frazier che Ken Norton (un altro che aveva battuto Ali).
Si arriva così a «Rumble in the Jungle», incontro col titolo in palio, a Kinshasa nello Zaire dove già nella preparazione si nota la differenza tra Foreman, sceso dall’aereo con i cani lupo (che ai locali ricordavano le angherie di Leopoldo del Belgio, il sovrano coloniale) e un cordone di sicurezza, mentre Ali era il fratello nero e si allenava correndo per le strade periferiche della capitale coi ragazzini che l’inseguono intonando «Ali boma ye» (Ali, uccidilo).

Per le prime riprese Ali insulta il suo rivale che gli scarica addosso una raffica di colpi pesantissimi ma resiste e solo più avanti passa al contrattacco, con una serie di combinazioni che spezzarono il fiato a padre George e all’ ottavo round lo mandò al tappeto, nel tripudio generale. L’ennesima rinascita dello sportivo coraggioso dalla volontà e determinazione ferrea.

Purtroppo quei colpi presi e gli altri, nell’altro big match a Manila 1975, il terzo match contro Frazier, dove entrambi i contendenti sfiorarono la commozione cerebrale per la brutalità dell’incontro, «Thrilla in Manila», con jab e ganci e diretti devastanti e l’angolo di Smokin Joe che decide di ritirare il pugile, in condizioni davvero critiche lasciano il segno. Nel 1980, ormai meno potente e meno agile, Ali proverà il terzo grande ritorno, contro Larry Holmes ma verrà battuto per getto della spugna alla decima ripresa.

Su 61 incontri disputati, ne ha vinti 56, 37 per ko. Nel 1984 gli venne diagnosticato il morbo di Parkinson e nel 1996 commosse l’ universo comparendo come ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta, un leggero tremolìo nelle mani e lo sguardo, diritto e intenso, re del mondo disarmato e ammalato, sempre dalla parte giusta, di quelli che hanno mazzolato l’America reazionaria e conservatrice, battendosi per la pace, danzando sul quadrato e nella vita, con lo stile di chi ha una carezza in un pugno, di una leggenda assoluta.