La foto più famosa dell’incontro mostra Muhammad Ali che simula un destro alla mascella di Fidel Castro, in perenne divisa verde olivo. Correva l’anno 1996. Il famoso campione dei pesi massimi, fuori dal ring ormai da 15 anni e da più di dieci anni affetto da parkinson, era giunto all’Avana come membro di una missione umanitaria che portava medicinali per gli ospedali cubani in crisi: dopo l’implosione dell’Unione sovietica, nel 1991, Cuba, soggetta all’embargo Usa, era isolata, povera e costretta a tirare la cinghia. Accompagnavano Ali la sua quarta moglie e una serie di giornalisti nordamericani. Compreso il giornalista e scrittore Gay Talese, incaricato di seguire il viaggio del pugile per conto di The Nation. «Ali all’Avana», cronaca di quella missione, fu poi rifiutata da The Nation e da una serie di altre riviste Usa e fu in seguito pubblicata da Esquire.

Uno degli anfitrioni più noti di Muhammad in quella visita e nell’incontro con Fidel fu Teófilo Stevenson, forse il più famoso pugile cubano, medaglia d’oro olimpica, che un anno prima era stato ospite di Ali nel corso di una sua visita negli Stati Uniti. A Stevenson era stato proposto da manager americani un ingaggio di 10 milioni di dollari se fosse passato al professionismo negli Usa e avesse sfidato Muhammad per la corona mondiale dei pesi massimi. Il pugile cubano rifiutò, sostenendo che per lui era ben più prezioso «l’amore di dieci milioni di cubani». Un gesto apprezzato da Ali, che poi divenne suo amico.

I due campioni del ring, accompagnati dalle rispettive quarte mogli, furono ricevuti al palazzo della Rivoluzione da Fidel Castro, il quale abbraccia Muhammad e, mediante un interprete, gli comunica la sua felicità di incontrarlo e lo ringrazia per la visita. Racconta Talese che Ali non risponde. E muto e imperscrutabile rimane per il resto dell’incontro. Ali ha difficoltà a parlare con chiarezza, per questo si limita a guardare il lider maximo della Rivoluzione con un sorriso cortese, però come congelato dal parkinson.

Affatto diverso, l’atteggiamento di Fidel che sembra mettercela tutta per rianimare il suo ospite. E riceve con entusiasmo una foto ingrandita di Ali in compagnia di Malcolm X, con data Harlem, 1963 e dedica di Muhammad, il quale ha anche disegnato un cuore. Talese racconta che i due , alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, avevano condiviso la scena internazionale come due personalità che combattevano l’establishment statunitense e «ora, nell’autunno della loro vita, si conoscono direttamente per la prima volta: Ali silenzioso, Castro isolato».

Per togliersi dall’imbarazzo, Fidel si rivolge a Stevenson, come saluto gli da un debole pugno e gli chiede chi è la giovane donna che lo accompagna. Ne segue un dialogo carico di battute alla cubana fino a quando l’ambiente si rilassa. Allora Ali incomincia a muoversi lentamente e alza il braccio verso la mandibola di Fidel. Nel salone risuonano risate e applausi. Fidel chiede aiuto a Stevenson che alla fine simula un combattimento con Ali. Al rallentatore e senza toccarsi. Ecco l’incontro che per i manager Usa valeva dieci milioni di dollari e che non ha mai avuto luogo.

Adesso, di fronte a Fidel che più che spettatore si sente l’allenatore, l’incontro è una sorta di pantomina di sparring, ma storica.

Lo spettacolo non è finito. Ali alza il pugno sinistro, tremolante a causa del parkinson e, racconta Talese, «incomincia a estrarre dalla parte superiore del pugno, lentamente e con teatrale delicatezza, la punta di un fazzoletto di seta rosso» che poi fa sparire. La «magia», seppur tremolante, del pugile conquista Fidel che chiede spiegazioni del trucco.

Ma ormai è stanco e mentre Fidel si intrattiene con Stevenson, il campione americano si addormenta. Per risvegliarsi solo al commiato con el comandante, che gli stringe la mano e si ritrova fra le dita il mignolo di gomma che aveva permesso la «magia» di Ali.