Il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno, un anonimo impiegato della Società nazionale gas e petroli algerini si sveglia, si guarda allo specchio e non vede più la propria immagine riflessa. È la prima delle «cancellazioni» che da quel giorno scandiranno la sua vita determinandone il destino.
A partire dalla sorte toccata all’uomo, in Lo specchio vuoto (Mesogea, pp. 172, euro 16, traduzione di Daniela De Lorenzo), Samir Toumi, tra le voci più significative della nuova letteratura algerina, descrive la condizione di un paese che ha visto progressivamente trasformarsi l’entusiasmante stagione dell’indipendenza dalla Francia dell’inizio degli anni Sessanta nel cupo prendere forma di un autentico regime. Un «sistema» incarnato oggi dalla figura del presidente Abdelaziz Bouteflika, cui solo la mobilitazione in atto da settimane nel paese ha impedito di candidarsi ad un quinto, e successivo mandato, dal 1999.
È negli stessi giorni in cui i giovani algerini tentano di scrivere nelle piazze una nuova pagina di storia del paese, che Toumi, nato nel 1968 a Bologhine, a nord di Algeri e di formazione ingegnere, presenta in Italia il suo romanzo che molto dice di quella realtà: oggi a Milano nell’ambito di Book Pride (Fabbrica del vapore, ore 19), domani alle 18,30 alla libreria Griot di Roma.

Il romanzo spiega che la «sindrome da cancellazione» di cui soffre il protagonista è in realtà un male collettivo che tocca molti maschi algerini intorno ai quarant’anni: non c’è traccia di loro nello specchio come nella realtà attuale del paese?
Non a caso di questo personaggio non conosceremo mai il nome: ci appare a prima vista piatto, senza emozioni, incapace di introspezione. La sua esistenza scorre lungo una traiettoria guidata dalle decisioni già assunte in passato da suo padre, il glorioso Mujahid della Guerra di Liberazione Nazionale. Non ha desideri, né invidia, né piani quanto al futuro. A quarantaquattro anni, un anno dopo la morte del padre, «perde» il suo riflesso nello specchio. In assenza di parole e sentimenti, è il corpo, la sua apparente cancellazione nell’immagine riflessa, che innescherà un processo nuovo, una sorta di squilibrio dagli esiti del tutto inediti per lui. Quell’immagine riflessa è la coscienza della nostra identità e della nostra esistenza. Perciò, sì, è l’esistenza e la coscienza di questa generazione nell’Algeria di oggi ad essere al centro del romanzo.

Una generazione schiacciata da quella dei «padri della patria» che hanno combattuto per l’indipendenza e che dominano ancora la scena. Il problema – non solo sul piano politico – è quello di condurre queste figure fuori dal «mito» per renderle umane e permettere così ai loro figli di prenderne il posto?
È proprio così. Ho scritto «Lo specchio vuoto» partendo da un presupposto preciso. Perché la mia generazione, nata dopo l’indipendenza del paese, sente di non aver raccolto la fiaccola dei nostri vecchi? Perché la narrazione algerina, il nostro «romanzo nazionale», parla ancora e soltanto di loro e non si riferisce mai a noi? Perché non sembra esserci stata alcuna trasmissione tra le generazioni: quella dei nostri padri che hanno liberato il paese e la nostra, quella dei loro figli? Si tratta di quesiti centrali per il futuro dell’Algeria, anche perché, come indico nel libro, tutti sono in qualche modo «tenuti in ostaggio» da questa Storia Ufficiale. I figli, che fanno fatica ad esistere di fronte alla gloria dei loro padri e i padri stessi che sono a loro volta prigioniero di questo ruolo di liberatori della nazione. E le donne. Come quelle del romanzo: la madre, totalmente dedita al padre, e l’amante, anch’essa legata dal fascino che quest’uomo esercita su di lei. Tutto ruota attorno al glorioso comandante Hacene, e quando quest’ultimo si spegne, l’edificio si spezza.

È inevitabile chiedersi quanto ci sia di autobiografico in questa storia: il protagonista ha all’incirca la sua età…
Ci sono diversi riferimenti all’ambiente in cui sono cresciuto. Attraverso il romanzo volevo descrivere lo stile di vita della classe sociale privilegiata che si è creata dopo l’indipendenza. Quella specie di nomenklatura formata dai combattenti di allora – che, non va dimenticato, all’inizio degli anni Sessanta superavano di rado i quarant’anni – e dalle loro famiglie. Un ceto nuovo che però si è disconnesso rapidamente dal resto della società.

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L’esito del romanzo lascia aperto qualche interrogativo sul futuro: dopo un delirio violento il protagonista sembra voler assumere l’identità del padre scomparso. Malgrado quanto sta accadendo nelle strade di Algeri non vede ancora la possibilità di un vero cambiamento della situazione?
Al contrario. Solo che il cambiamento che annunciano le manifestazioni di questi giorni non vede in realtà protagonista la mia generazione, cui il libro è dedicato, ma quella dei nostri figli. Sono loro a riempire le piazze, ad avere l’opportunità di scrivere una nuova «narrazione algerina». Non sono divorati come noi dall’ombra dei loro padri, dal mito dei fondatori della patria. Non ho scelto a caso i versi di Oscar Wilde che aprono il romanzo: «La nuova generazione è spaventosa. Come mi piacerebbe farne parte». È a questi ragazzi che spetta di cambiare il paese. La generazione dei nostri genitori, il sistema che hanno messo in piedi, si sta gradualmente estinguendo e la lenta morte del presidente è l’illustrazione più forte di tutto ciò. E questa strada, così bella, così giovane, così diversa e così matura, rappresenta il futuro. È la generazione dei nostri figli che cambierà l’Algeria. Quanto a quelli che hanno la mai età, spero che saprà almeno accompagnare questo cambiamento.

Già negli anni Novanta l’Algeria era stata attraversata da un vasto movimento popolare a favore della democrazia e della giustizia sociale. I frutti di quella stagione finirono però per essere manipolati dai fondamentalisti, spingendo il paese verso una tragica spirale tra terrorismo e repressione. Oggi si può correre lo stesso rischio?
Personalmente non lo credo. Nel 1988 avevo vent’anni e ho partecipato attivamente al movimento democratico. La principale differenza con quel periodo sta nel fatto che all’epoca si contrapponevano due modelli di società: quella dei conservatori (religiosi) e quella dei laici. C’era una grande tensione e molta violenza. Oggi questa divisione non significa più nulla. La società è diversa, è fatta di differenze che convivono molto bene tra loro. In questo senso, ciò che viviamo è una sorta di «comunione». Scopriamo ogni giorno di più di essere un popolo fatto di persone che riflettono, agiscono, pensano in modo diverso e si rendono conto che siamo molto meglio dei nostri leader. I nostri leader non ci meritano, per questo devono andarsene.

In questo libro, come già in «Alger, le cri» (Éditions Barzakh, 2013), la vita in strada, la musica e i sensi giocano un ruolo particolare. Chi non vede se stesso nella sfera pubblica, costruisce per questa via proprio «romanzo collettivo»?
Corpo e libertà sono collegati. In una società antidemocratica, il corpo conosce molti limiti. In una dittatura, l’espressione del corpo è limitata, il suo movimento, la sua espressione non vengono concessi che a determinate condizioni. Ciò che dico è evidente in questi giorni nelle piazze di tutta l’Algeria. Da quando sono cominciate le manifestazioni che chiedono libertà e diritti, stiamo assistendo ad una sorta di rilassamento del «corpo sociale» che corrisponde anche ad un eguale rilassamento del corpo fisico. È qualcosa di impressionante che accade sotto i nostri occhi ogni giorno.

Nel difficile contesto dell’Algeria che descrive nel romanzo, che spazio c’è stato fino a ora per un giovane scrittore come lei?
Si deve partire da una considerazione. Per me, la letteratura è un modo estremamente potente per permettere a una società di conoscersi meglio. Potente perché, attraverso l’empatia del lettore verso delle «piccole vite», come scrive Pierre Michon, possiamo portarlo a mettere in discussione la società in cui vive. La letteratura occupa un posto importante in Algeria. Siamo fortunati ad avere una scena letteraria molto attiva e ad avere scrittori che parlano arabo, francese e tamazight, la lingua berbera. Mi piace l’idea che attraverso i miei scritti, testimonio di ciò che siamo. E, oggi, di ciò che potremo diventare.