«Djabelkheir n’est qu’un début…»: il titolo del commento dedicato dal noto giornalista e scrittore Kamel Daoud alla condanna del ricercatore universitario e islamologo a tre anni di carcere per «attentato alla religione, ai precetti dell’islam e ai versetti del corano» è stato purtroppo una facile premonizione.

Martedì Amira Bouraoui, femminista e militante dell’hirak, è stata condannata a due anni di carcere dal tribunale di Cheraga per «offesa all’islam», la richiesta del pubblico ministero era di cinque anni. A suo carico i processi erano due: anche nel secondo per «attentato alla persona del presidente della repubblica» e «diffusione di informazioni suscettibili di attentare all’ordine pubblico» è stata condannata a due anni di carcere, contro i tre richiesti. Siccome in Algeria le pene non si cumulano, ma prevale la più pesante, Bouraoui dovrà scontare due anni, salvo sconti in appello.

Le pesanti pene inflitte alla ginecologa sulla base di post diffusi sui social dimostrano l’accanimento giudiziario nei suoi confronti. Amira era già stata condannata in passato a un anno dal Tribunale di Tipasa ma poi aveva beneficiato della libertà provvisoria, insieme ad altri detenuti dell’opposizione, concessa il 2 luglio 2020, in occasione delle celebrazioni per la liberazione dell’Algeria dal colonialismo francese il 5 luglio.

Amira Bouraoui, 45 anni e madre di due figli, diventa una nota figura dell’opposizione algerina fin dai tempi di Bouteflika quando, nel 2014, si era fatta conoscere come una dei leader del movimento «barakat» (Basta!), nato in opposizione al quarto mandato dell’ex presidente. Bouteflika sarà poi costretto a dimettersi dal movimento scoppiato nel febbraio del 2019, l’hirak, che porterà in piazza milioni di algerini.

Quelle dell’islamologo Djabelkheir e della ginecologa Bouraoui non sono certo le prime condanne dei tribunali algerini per «offesa all’islam». Lo scorso anno Yacine Mebarki era stato condannato a dieci anni, ridotti a uno in appello, perché trovato in possesso di un corano con una pagina strappata.

Tutti questi «miscredenti» hanno in comune la militanza nel movimento che chiede il cambiamento radicale del sistema di potere e le loro condanne si inseriscono in un clima di repressione dell’opposizione che negli ultimi giorni ha visto nuovi arresti tra i quali, ancora una volta, Mohamed Tadjadit, considerato il «poeta dell’hirak». Nel mirino anche la stampa: il corrispondente di Liberté è stato incarcerato nei giorni scorsi a Tamanrasset.

Il tentativo del presidente Tebboune, che ha indetto elezioni anticipate per il 12 giugno, è evidentemente quello di criminalizzare il movimento, che ha ripreso vigore in febbraio dopo l’interruzione dovuta al Covid, perché si oppone al voto sostenendo si tratti di una «pagliacciata».

Dopo una riunione dell’Alto consiglio di sicurezza un comunicato ha sentenziato che «lo Stato sarà intransigente», sotto accusa «gli atti sovversivi e le gravi deviazioni che provengono da ambienti separatisti e da movimenti illegali vicini al terrorismo, che sfruttano le marce settimanali». Tra i gruppi illegali per Tebboune non vi è solo Rachad, che sta alimentando da Londra il ritorno in forze degli islamisti per cannibalizzare l’hirak, ma anche il Mak, Movimento per l’autodeterminazione della Kabylia. Numerosi manifestanti sono stati arrestati perché insieme alla bandiera algerina portavano anche quella berbera che non costituisce un reato, ma la sentenza dipendeva dal Tribunale.

Che in questo clima di caccia alle streghe i tribunali si ergano a inquisitori e a difensori dell’ortodossia islamica non può essere una coincidenza. Il timore è che si assista a uno sdoganamento degli islamisti che tornano ad agire alla luce del sole e, siccome per ora non si presentano violenti e minacciosi come negli anni ’90, sono considerati inoffensivi. Gli islamisti hanno imparato la lezione.

E mentre il regime ripropone lo spauracchio del decennio nero per far naufragare l’hirak, cerca di sedurre gli islamisti in fase «entrista», come il male minore. Vengono accettati nei cortei dell’hirak perché non si oppongono allo slogan che va per la maggiore, «Stato civile e non militare», anche se mettono l’accento sul «non militare».

Per gli islamisti civile vuol dire islamico e non di diritto. Mi ricorda la piattaforma di Roma del 1995 che metteva d’accordo islamisti – rappresentati da Anouar Haddam dei Gruppi islamici armati – e alcuni partiti algerini e che parlava di legge legittima, peccato che in arabo si traducesse con sharia.