Come è lontana l’apocalisse romana da Torino. Quassù, in alto a sinistra, tutto ha un forma ortogonale, e la realtà che compone la vita degli uomini e delle donne è un linea retta come l’infinito corso Traiano che porta al campidoglio Fiat di Mirafiori. Il cataclisma grillino della capitale, qui, è un’eco lontana.

L’energia cinetica degli ultimi venti anni del cosiddetto Sistema Torino procede nel nuovo corso politico torinese, nato dallo sventramento di un potere mal tollerato dalla città. Così le rivoluzioni non ci sono ancora state, anche perché in campagna elettorale non sono state promesse.

Mentre Virginia Raggi affoga letteralmente in un mare di guai, quassù l’apice della conflittualità politica ruota intorno alle sorti di un’alga. Il problema è molto semplice: il Po è diventato verde.

Verde smeraldo, che al tramonto attira le coppie per un autoscatto vista Myriophyllum aquaticum.

Ora Torino è una città con tre miliardi di euro di debiti, quindi parlare di alghe potrebbe sembrare una perdita di tempo ai più, una sovrastruttura. E invece no: perché alghe e debito sono strettamente imparentate, e raccontano molto della progressiva liquefazione dello Stato: ma di queste cose volgari, dei soldi, parliamo dopo.

L’alga non è da sottovalutare, perché il fiume in queste condizioni non si è mai visto: il Po a Torino è uno stagno, testimone di un grave degrado ambientale. E soprattutto per una città che vuole passare dal settore primario al turismo è un problema avere il Rio delle Amazzoni a un passo dai portici barocchi di Piazza Vittorio dove passeggiano i turisti.

E quindi ai primi di agosto, quando Virginia Raggi lotta con i suoi enormi guai, l’altra sindaca cinque stelle, Chiara Appendino, inizia a sentire il tipico lamento torinese per le cose che non vanno mai bene: eh ma queste alghe, eh ma insomma ci fosse stato ancora Piero a quest’ora, e avanti così di mugugno in mugugno.

A caricare la dose è soprattutto l’opposizione, cioè il Partito democratico che veste il lutto stretto da due mesi. Loro di valorizzazione fluviale del Po se ne intendono: due anni fa ci fecero una spiaggia, scimmiottando Parigi. Piovve tre mesi di fila e venne fuori una grande opera d’arte incompresa, una specie di palude.

Così, i grillini, messi sotto pressione, fanno. E qui subentra l’unico vero sindaco della città, il potere forte per eccellenza: sua maestà l’algoritmo. Cioè quel complesso calcolo implicito, meta cognitivo, che decide cosa si può fare, e soprattutto cosa non si può fare: e dato che Torino ha le casse piene di cambiali da onorare verso le banche di sistema, per il bene amato Po non c’è molto da fare.

Ma la caratteristica del M5S è la tignosità: così, un giorno di agosto, una quarantina di attivisti si armano di rastrello e stivaloni e si cimentano sotto il sole cocente in una prova di ardimento: entrano nel fiume a piedi, o su barchini, ed «estirpano» le alghe. Ci sono anche due assessori della giunta e alcuni consiglieri comunali.
Ilarità generale, pare una carnevalata. I burloni rievocano poetiche immagini cinematografiche, e «Riso amaro», diventa per la giunta cinque stelle «Alga amara». Nasce una pagina facebook denominata «Chiara Appendino che fa cose», che inizia a martellare con ironia sulla vicenda: piovono fotomontaggi del Po trasformato in un campo da golf e altre critiche pesanti.

Il fattore alga, o millefoglie acquatico, o Myriophyllum aquaticum, gonfia a dismisura anche sul piano scientifico: prende la parola l’agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa). Con un comunicato sibillino avverte: «Si invita a non effettuare autonomamente estirpazioni della pianta, ma a lasciare il compito a personale esperto in materia».

Scatta l’apocalisse del lamento sabaudo.

Nel cuore di una polemica fatta di nulla ma insidiosa, mentre a Roma cascano direttori e teste manco si fosse nel terrore parigino del 1794, arriva qualche giorno fa un piccolo comunicato dell’Ipla, Istituto per le piante da legno, massima autorità sul merito della vicenda: «In seguito alle segnalazioni inviate, il Comune ha opportunamente deciso di avviare un intervento di controllo della specie, effettuato manualmente, evitando lo sfalcio meccanico e riducendo il rischio di dispersione a valle con uso di barriere mobili».

Giunge anche l’encomio solenne perché l’intervento dei volontari avrebbe evitato un pericoloso contenzioso con l’Europa a causa di una procedura di infrazione, con relativa multa.
Le risate, i pregiudizi e i mugugni cessano all’istante.

Il Partito democratico erede di Gramsci abbandona la querelle e si dedica al pensoso dilemma: Gigi d’Alessio sì, Gigi d’Alessio no alla Festa dell’Unità? Alla fine sarà Gigi d’Alessio sì. Trionfo.

E così si giunge ai giorni odierni: il fiume è sempre più smeraldino, e il vento porta via l’odore nauseabondo di putrido. Rimane però il volgare problema dei soldi: perché non è possibile ripetere la prova pedagogico scientifica, e non si possono mandare più assessori e attivisti, a strappare, pardon rimuovere, le alghe con il rastrello.

Servono quindi i soldi. Quanti? Da cinquantamila a trecentomila euro. Chi li mette? Al momento non si sa, si spera in qualche fondazione bancaria, o nel governo. A riveder le alghe, anzi no, le stelle: la saga continua.