Estate 1981. Dalle radio la voce roca di Alice riempie l’aria con Per Elisa, mescolandosi al grido «cocco-cocco-coccobello», e mentre i pupi fanno castelli di sabbia, sotto gli ombrelloni già stipati qualcuno spacca il cocomero. Sapore di vacanze nell’Italia agli inizi del nuovo decennio dove Dc, Gladio, P2, Br si confondono coi sogni di un’epoca spaziale delle generazioni nuove che hanno appena scoperto Jeeg Robot e i cartoni giapponesi. La famiglia al mare è una come tante, i figli giocano, la mamma legge, il papà scatta le foto per la nonna: polaroid, il ragazzino sorride pensando al suo eroe.

SI CHIAMA Alfredo, detto Alfredino, è bravo a costruire castelli magari sarà architetto fantastica la mamma sul suo futuro osservandolo con quell’insieme di orgoglio e apprensione che attraversa lo sguardo di ogni mamma. Solo che per quel figlietto – il maggiore dei due – il futuro è incerto prima di cominciare, una malformazione al cuore gli impedisce di correre, di ridere, gli affanna il respiro. Dovrebbero operarlo ma i rischi sono alti: è un predestinato Alfredino con alle spalle le onde e sul volto la malinconia che non sfugge all’obiettivo? Chissà. Per farlo stare meglio lo portano in campagna, a Vermicino, vicino Frascati, ci stanno i nonni, c’è l’aria buona, un toccasana. Il resto diventa storia, una «storia italiana» come dice il sottotitolo di Alfredino, la fiction di Sky diretta da Marco Pontecorvo – quattro puntate in onda il 21 e il 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su Now – che racconta quarant’anni dopo la storia del bambino di sei anni nel pozzo artesiano di Vermicino, e tutto quanto accadde dal 10 al 13 giugno, tra la scomparsa del piccolo 36 metri sottoterra e la sua morte. Una storia italiana appunto e non solo perché in quelle lunghe ore l’Italia scoprì la diretta tv – e visse ogni minuto si incollandosi al teleschermo in attesa di un finale che lieto non fu. «L’Hiroshima della televisione» – l’aveva definita Enrico Ghezzi – che anni dopo la Rai provò a raccogliere in una cassetta, Emozioni tv la cui vendita venne bloccata (giustamente) dalla famiglia Rampi (era il 1995, Rai di Letizia Moratti). Ma perché la vicenda di Alfredino mostrò di nuovo – poco dopo la rovinosa risposta al terremoto, in cui centinaia di persone morirono a causa dei ritardi negli interventi, lo stato del Paese, l’inadeguatezza di un sistema, dei soccorsi, della politica – assente se non per la figura del presidente Pertini che si recò sul posto a consolare – dei mezzi e degli uomini, vigili del fuoco, poliziotti.

FU COLPA anche dei media se le cose andarono male, si disse allora – sul «manifesto» ci fu una lunga discussione con molti interventi – che avevano reso quei momenti drammatici un circo – parola che risuona anche nella fiction sulle labbra di un giovane speleologo. Eppure far emozionare o indignare chi guardava, condividendo un sentimento di angoscia o di partecipazione, non è di per sé una «colpa»: quale bimbo o adulto in quei giorni e forse pure dopo non desiderava essere piccolo abbastanza da entrare nel pozzo e come nel tunnel di Alice trasformarsi nello Stregatto, afferrare Alfredino e restituirlo alla mamma, alla luce, ai sogni?
Semmai fu l’inconsapevolezza (politica) della Rai in questo confronto che la portò a spingere sullo stravolgimento emotivo – «Vicino a me c’è il padre del bambino… A che punto è la situazione?» «Stiamo cercando di fare questi buchi per rompere il cappellaccio…» «E Alfredo che dice? Lei è in continuo contatto con lui…» (Luigi Bartoccioni, Tg1 edizione straordinaria, 11 giugno 1980)» – quasi una «prova» della tv del dolore, in cui si scatenarono persino gli «odiatori» specie contro la mamma di Alfredo perché non piangeva.
Il film ci porta in quello che vedevamo in televisione, nel caos organizzativo – all’epoca la signora Franca Rampi (Anna Foglietta) dichiarò: «L’opinione pubblica ora sa, ha visto … Che spinga perché si costituisca un centro operativo efficiente per salvare la gente in pericolo» – lei si dedicò al progetto che portò alla costituzione della Protezione civile. E aggiunge dettagli narrativi, prova a dare racconto alle persone, al loro quotidiano sospeso, alle vite di chi stava lì davanti.

AL TEMPO stesso ripercorre gli errori, le impuntature, il capo dei pompieri concentrato sul pozzo parallelo il cui scavo sarà fermato dalle rocce durissime di cui lo avevano avvisato i giovani speleologi. E prima l’incuria dei pompieri locali, arrivati sul posto che senza misurazioni né rilievi buttano giù una tavoletta perché il bambino vi si aggrappi ostruendo il già stretto cunicolo. Mentre le ore passano con ansia, la voce di Alfredo è sempre più sottile, tra confusione, curiosi, e altri tentativi falliti. Fino a farselo sfuggire, a farlo sprofondare più giù mentre arrivano uomini magri, contorsionisti, e la madre piegata da dolore già sa nel cuore quale sarà la conclusione.
Spenta la «diretta» Pontecorvo continua nel «dopo» difficilissimo per i genitori che vivono il lutto inseguiti dai giornalisti, fino all’impegno della signora Rampi per la protezione civile e per il Centro Alfredo Rampi. Ma nell’ansia di «chiudere» – sceneggiatura di Barbara Petronio e Francesco Balletta – sembra voler mettere un po’ tutto a posto, ogni conflitto, ogni  quasi a «appianare» quanto visto prima. Peccato.