Sullo sfondo della rievocazione dei rapporti tra il fascismo e lo spettacolo teatrale e cinematografico del ventennio – alla quale lo studioso ha dedicato nel corso degli anni numerose indagini, di cui si ripropongono nel libro alcuni aspetti significativi come il declino del cinema regionale, tipico della stagione del muto, affossato dal centralismo del regime e dalla sua campagna contro il dialetto; l’unificazione della censura cinematografica con quella teatrale; le conseguenze soprattutto nel cinema della normalizzazione totalitaria degli anni Trenta – spicca l’ampio saggio dedicato alla rubrica cinematografica di Alfonso Gatto, apparsa su «Il Bargello», il settimanale della Federazione fascista fiorentina fondato nel 1929 da Alessandro Pavolini, a cui collaborano tra gli altri Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Ottone Rosai. Il poeta salernitano vi scrive di cinema per un breve periodo, dall’ottobre 1937 al marzo 1938, un momento di particolare interesse nelle vicende del cinema italiano, quando si è più che mai affermato il controllo del regime. Se si escludono alcuni interventi occasionali, Gatto terrà un’altra rubrica di cinema soltanto su «Vie Nuove» degli anni Sessanta, mentre scrive anche su «La Fiera Letteraria», dove rievoca la Milano di «Gli uomini che mascalzoni…» di Mario Camerini: «C’è la Milano degli anni in cui vi sbarcai anch’io, in cerca di lavoro, con un libriccino di versi che aveva avuto qualche merito e qualche lode, ma senza patente. Posso assicurarvi che l’aria delle strade e del traffico, quella Fiera, grande sì, ma non tanto, che faceva ancor paese e luna-park, il camminare a braccio delle ragazze stracittadine, il commercio amoroso extramoenia dei commendatori alla buona, sono capiti, espressi, documentati in luce d’agra poesia: meglio non si potrebbe».

Sulle pagine del «Bargello» il critico è vivacemente polemico nei confronti di «Scipione l’Africano» e «Condottieri», che hanno richiesto masse di uomini e di animali, di corazze e di bandiere, senza contare «Il tuono di una retorica di seconda mano». Il confronto tra il cinema italiano e quello americano conferma i limiti della nostra produzione nazionale che non riesce a rinnovarsi nei contenuti, nei generi, nei linguaggi: «Si confrontino le figure femminili nei film italiani e in quelli americani e le somme tirate saranno a nostro sfavore. La modernità, che più ha colpito l’immaginazione dei cineasti in smania di scopiazzature, è stata ridotta agli aspetti tecnologici ed esteriori: le automobili, gli aeroplani, i treni a corrente elettrica, il culto della velocità, il telefono, la radio, i grandi magazzini, gli arredamenti delle dimore abitate dagli esponenti delle classi abbienti, la moda di lusso, i cappellini civettuoli, le pellicce, i calzettoni bianchi delle signorinette in bicicletta. Solo gli elettrodomestici sono stati sacrificati, forse perché suonavano inverosimili per gli aspiranti alle povere e ambite mille lire al mese». Certo, il fascino di Hollywood coincide con lo stardom di attori straordinari come Clark Gable, Gary Cooper, William Powell, Bette Davis, Claudette Colbert. Ma l’aspetto più importante è forse quello di rivelare agli spettatori una singolare pluralità di mondi, da quello «poetico di colori e di ritmi» di Walt Disney a quello scatenato e vivacissimo del musical, dal mondo «rovesciato e scoppiettante» dei fratelli Marx a quello «stralunato e accattivante» di Stan Laurel e Oliver Hardy. Senza dimenticare i registi più noti come John Ford, Robert Flaherty, Frank Capra, Michael Curtiz, che si muovono tra esotismo e modernità, documento e epopea.