Dopo una giornata di oscillazioni il Pdl ha deciso: rottura. Cosa voterà nel chiarimento davanti alle camere richiesto da Enrico Letta ancora non è certo, ma tutto indica che, ove richiesta, negherebbe la fiducia. La scelta arriva dopo una giornata all’insegna dell’ambiguità. Berlusconi sceglie il mutismo, e i suoi ufficiali sembra quasi si divertano a lanciare segnali contrastanti. Non sulle dimissioni da presentarsi un attimo dopo il voto della Giunta sulla decadenza del martoriato di Arcore, al termine della seduta pubblica fissata per venerdì mattina, nella sala Koch del Senato, in diretta web. Quelle certe erano e certe rimangono. Le hanno firmate quasi tutti i parlamentari. Non lo hanno fatto le supercolombe come Quagliariello e il sottosegretario Castiglione e non lo ha fatto Giovanardi, ma lui solo perché le ritiene uno strumento poco consono. Meglio dare la spallata dopo il voto dell’aula, che qualche sorpresa potrebbe sempre riservarla.

Il cavaliere deciso era e deciso rimane. Chi ieri ha parlato con Berlusconi, che ha passato la giornata tra un vertice e l’altro a palazzo Grazioli, non solo non lo ha trovato meno combattivo dei giorni precedenti, ma doppiamente furibondo. Non più solo con Napolitano, ormai individuato come “regista del complotto”, ma anche con Letta, che, secondo i tortuosi ragionamenti silvieschi, avrebbe dovuto restare neutrale invece si è schierato con il Colle. Così, per il gran giorno, la neonata Forza Italia ha pensato di convocare una manifestazione a Roma, al grido di «Siamo tutti decaduti».

L’ambiguità è tutta concentrata sull’altro fronte, quello della fiducia che Letta, in pienissimo accordo con il Colle, si accinge a chiedere prima del voto della Giunta, lunedì o martedì al Senato. Nella gelida lettera di risposta a Napolitano pubblicata ieri dal Giornale, i capigruppo Brunetta e Schifani hanno ribadito che la sola via d’uscita è affidare alla Consulta il giudizio finale sulla costituzionalità della legge Severino, ma hanno anche sostenuto che col governo la faccenda non c’azzecca, e chissà se sono riusciti a mettere nero su bianco la clamorosa balla senza buttarsi via dal ridere. Brunetta, in giornata, rincara assicurando che le dimissioni dei ministri Pdl non sono alle viste. Anzi, l’ipotesi «non esiste proprio». Gli stessi falchi come Capezzone o Augusto Minzolini, pur dichiarandosi personalmente contrari a votare la fiducia, non possono escludere che alla fine prevalga proprio la linea finto-morbida.

Sembra un disperato tentativo di evitare una crisi che tutti dicono di considerare una jattura. E’ solo l’apotesi del gioco del cerino, una partita tutta tattica e mediatica che ha per posta in gioco non la sopravvivenza di un governo che tutti danno per mortissimo ma i dividendi elettorali ricavabili dall’addossare alla controparte la colpa del disastro. L’incontro chiave della giornata, quello tra Letta e Alfano scortato dal ministro Lupi, ne è un palese segnale. Chiaro il premier: non c’è più tempo per giochi e distinguo, per lucrare facendosi passare per nemici delle tasse e dipingendo gli alleati come strozzini. O si va avanti tutti insieme senza più fibrillazioni oppure meglio chiuderla qui, ma assumendosene le responsabilità di fronte al Parlamento e al Paese. Altrettanto secco il vice: «Si può trattare, ma solo se trovate il modo di rinviare la decadenza» di Silvio.

Un copione che si ripete senza variazioni quando Letta, dopo il summit sul Colle, si rivolge al consiglio dei ministri. Chiede una soluzione definitiva, di quelle “prendere o lasciare”. Gli rispondono che non si chiarisce niente se non si infila nel “chiarimento” la riforma della giustizia, con in agenda cavalli di battaglia come la responsabilità civile delle toghe. A modo suo è un tentativo di mediazione. Non si parla più di salvare solo il seggio di Berlusconi, ma di intervenire sulla giustizia «allineandosi alle direttive europee». Ma nel clima che si è creato, per Letta e per il Pd è una proposta irricevibile. L’esito è inevitabile, salta la manovrina e la settimana prossima salterà anche il governo Letta.