Un salto al Quirinale, ufficialmente solo per parlare di Lampedusa, poi Angelino Alfano vola ad Arcore, per l’ennesimo round della partita infinita che lo contrappone al padre, padrino e spesso padrone Berlusconi Silvio. Dovrebbe essere la mano finale. L’ultimatum scandito dal capo venerdì è scaduto: Angelino dovrebbe decidere una volta per tutte se firmare il documento approvato dall’Ufficio di presidenza, in soldoni la resa, oppure tirare dritto e correre verso la scissione. Ma l’uomo è un’anguilla e quella scelta proprio non vuole farla. Così, proprio alla vigilia del fatale meeting, esce la quotidiana anticipazione del prossimo libro di Bruno Vespa con dentro proposte incandescenti che scartano rispetto al piano attuale dello scontro.

«Il prossimo candidato premier – si allarga l’ex delfino – dovrà essere scelto con primarie il più aperte possibile, alle quali partecipi il più alto numero di simpatizzanti possibile». Nel reame di Arcore è una sfida aperta. Il partito che prospetta Alfano è una forza politica come tutte, non più una proprietà privata. Quella proposta significa spodestare il monarca. Le reazioni non si fanno attendere, e sono tutte tostissime. Il capocoro, in quanto leader ormai riconosciuto dei lealisti, è Raffaele Fitto: «Io ragiono sul dopo Berlusconi solo quando Berlusconi autorizza il ’dopo’. A decidere il prossimo candidato premier sarà lui».

Sandro Bondi, che negli ultimi tempi passa per una specie di ventriloquo del Sommo, va oltre. L’ideuzza di Alfano desta nel suo petto «stupore misto ad amarezza». Lui, chiarisce, sta in Forza Italia solo perché «c’è la leadership di Berlusconi». Sono in tanti a concordare, a partire da Daniele Capezzone. Sono in tanti a ripetere che quel partito, comunque lo si chiami, è di Berlusconi, anzi è Berlusconi.

Alfano punta il dito contro «gli estremisti», perché «non è bene che il nostro partito, che è sempre stato moderato, finisca in mano a loro». Ma l’estremismo non c’entra niente. La posta in gioco è la trasformazione del Pdl in un partito «normale», e a questa mutazione genetica radicale Silvio Berlusconi non può acconsentire. Fabrizio Cicchitto, che ormai sta ad Alfano come Bondi a Berlusconi, lo dice senza mezze parole. Vede «una leadership a due» in un partito che «non può essere nordcoreano». Paragone eloquente, essendo la Corea del nord un Paese in cui il potere si è tramandato di padre in figlio.

Con questa linea Alfano si presenta ad Arcore, deciso a non farsi mettere con le spalle al muro dall’aut-aut sulla firma in calce al documento di Silvio o dal dilemma sul sostegno sempre e comunque al governo. Scartare mettendo al centro della trattativa la natura del partito, insistere per le garanzie già chieste, di fatto la diarchia, sono anche modi per rinviare una rottura che in fondo né lui né Berlusconi per ora vogliono, che entrambi, per motivi diversi, temono, ma che è ormai nell’ordine delle cose. Alfano si è convinto che la sua occasione per dar vita a un partito «normale», senza padroni, moderato, in marcia verso l’incontro con Casini e Fini sia questa e che per coglierla sia essenziale salvare il governo. Berlusconi è deciso a riconfermare il suo potere assoluto sul partito che ha creato. Sono posizioni inconciliabili, e lo resteranno anche se dall’incontro di Arcore uscirà fuori l’ennesima finta tregua.

Ma sulla sfida di Alfano grava il presagio di uno che in faccende del genere è esperto, Gianfranco Fini: «Berlusconi non è finito. In quel partito tutti gli devono tutto. E di suoi successori al momento io non ne vedo. A parte la successione dinastica…».