Alle 20 dell’ennesima giornata nera per Silvio Berlusconi il commento più fragoroso che accoglie il penultimo passo verso la sua defenestrazione è quello che non c’è: il silenzio pesantissimo di Angelino Alfano. Prima di farsi scappare una parola di fuoco, o anche solo tiepidina, contro la decisione della giunta, il segretario del Pdl ci pensa cento volte, poi tace. Il nuovo ruolo impone un nuovo stile, e il particolare è più eloquente di mille affermazioni esplicite. Mentre la giunta vota la proposta di decadenza, Angelino è a palazzo Grazioli, con il ghigliottinando, Schifani, Brunetta e un po’ di altri graduati, come il vicepresidente del gruppo al senato Esposito. Tutti lì a cercare di rappezzare quel che non si può più rappezzare. Il partito del quasi ex senatore Berlusconi.
Si odiano le anime del Pdl. Però devono provare a restare insieme. Così fioccano le dichiarazioni concilianti. Cicchitto, che nemmeno 48 ore fa già aveva sqadernato il gruppo alternativo, frena a tavoletta: «Piano, che qui bisogna defalchizzare, mica deberlusconizzare». Giovanardi, ineffabile, spiega il segreto della scissione riunificante, roba che nemmeno il povero Aldo Moro: «Non vogliamo fare la fine dell’Udc». I voti, i maledetti voti. Angelino ha tutto, ha i ministri, i parlamentari, gli appoggi che contano, una stampa con la lingua sfoderata comme il faut. Tutto tranne i voti, un particolare che in politica conta. Senza di quelli si finisce come l’Udc o peggio, come Fini, l’altro delfino-traditore. E allora meglio restare a casa di Silvio, però chiedendo una quantità industriale di teste: Verdini, Pitonessa, Capezzone, Sallusti.
Anche i falchi vorrebbero epurare a man bassa, ma non possono. E’ vero, hanno racimolato una centinaio tondo di firme a garantirne il predominio nei gruppi parlamentari nonostante la rivolta. Ma li hanno messi insieme col trucco, chiedendo un pronunciamento lealista, e ci mancava solo che in troppi negassero lealtà al capo ferito nel giorno in cui viene passato per le armi. Ma questo è ancora il meno. Il guaio grosso è che i descamisados devono fare i conti con una potente area centrista, ufficiali come Bonaiuti, Romani, Gasparri e lo stesso Schifani, fedeli sì ma non al prezzo di una scissione che taglierebbe i ponti col potere e consegnerebbe anche loro nelle mani dei bellicosi pasdaran. La loro linea del Piave sarebbe il congresso, l’azzeramento delle cariche, un rimpasto che sancisca la loro effettiva presenza nel governo e dunque li renda a tutti gli effetti parte della maggioranza politica, non solo numerica. Vorrebbero tre new entries Repetti, Gelmini e Carfagna, che se non si prende per i capelli con la signora che dovrebbe sostituire, Nunzia De Girolamo, poco ci manca.
Ma gli assi, al momento, stanno in mano all’altra fazione. Un Berlusconi che sembra rassegnato ad assumere il ruolo mesto di padre nobile, vicinissimo all’inagibilità politica, convinto che il partito debba restare unito è pronto ad affidare proprio ad Alfano lo scranno di segretario unico. Coadiuvato da un gruppo misto dal quale però dovrebbero essere escluse le punte della squadra falchesca. Di congresso poi non se ne parla, vorrebbe dire riaprire il gioco al massacro e il discorso vale a maggior ragione per l’azzeramento delle cariche, capigruppo inclusi. Lo stesso capitolo rimpasto non scalda il leader in declino: la rissa Carfagna-Di Girolamo indica come andrebbe a finire. Del resto, il congresso del Pdl c’è già stato e si è concluso con vincitori e vinti. Ora si tratta solo di dividere in parti non eque l’eredità del rimpianto capo.