Cosa ci hanno raccontato gli schermi della Mostra di Venezia 78 che si è chiusa ieri, quali ossessioni, fantasmi, figure narrative attraverso le quali restituire i sentimenti del nostro tempo? Un piccolo dizionario a tema attraverso i 21 titoli del concorso, che diventano una possibile geografia del cinema oggi.

MADRI. È sotto il segno della maternità che si è aperta la Mostra con il melò di Pedro Almodovar Madres Paralelas, due vite in maternità tra gli azzardi del caso con sullo sfondo il paesaggio della memoria della guerra civile spagnola e le sue narrazioni – e vittime – rimosse. L’idea di maternità oscilla, si allarga, percorre sorellanza, trasmissione di consapevolezze, eros, desiderio per tornare alla biologia. Madri e figli anche in Dune di Denis Villeneuve, che anzi si chiude con l’annunciazione del prossimo sequel su Madre e Figlio nel deserto, lei è incinta sarà quel nascituro il «messia» tanto atteso? Un gioco di specchi intorno alla maternità è anche quello di The Lost Daughter esordio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal, dal romanzo di Elena Ferrante La figlia oscura, in cui la protagonista proietta su una giovane madre il proprio difficile rapporto con la maternità, il senso di colpa che ha vissuto per non avere sentimentalmente aderito al «ruolo», almeno come viene tramandato, e insieme il desiderio mai superato di sentirsi ancora figlia. Madre stupenda è Lady D (Spencer di Pablo Larraín), l’intimità della stanzetta dei figli sono gli unici momenti empatici col proprio personaggio in cui il regista non lo «viviseziona» come fosse alla morgue.

Una madre ostinata in cerca di giustizia in Leave No Traces del giovane regista polacco Jan P. Matuszynski, che si ispira alla storia realmente accaduta dell’omicidio di un ragazzo nella Polonia del 1983. Figlio di una poetessa dissidente, vicina a Solidarnosc e più volte arrestata, Grzeborz è ucciso a botte in una stazione di polizia. I militari negano, hanno picchiato «senza lasciare tracce», la rete di militanti e oppositori al regime di Jaruzelski protegge il suo amico unico testimone dei fatti. La madre resiste alle intimidazioni, simbolo di una lotta che non si può fermare.

Di maternità parla anche L’événement, Leone d’oro, tratto dal romanzo di Annie Ernaux e esordio di Audrey Diwan. Qui però la prospettiva è rovesciata: si tratta infatti della scelta di essere o no madri di fronte a una gravidanza non voluta. Nella Francia del 1963 la giovane Annie è incinta ma non può abortire perché è vietato dalla legge. I medici uomini la mettono alla porta, le amiche si allontanano: spaventate dai rischi del carcere, lei cerca disperatamente di liberarsi di quella che considera una condanna. E non perché non vuole figli, anzi ne vorrà in futuro, ma perché rifiuta la maternità come imposizione ineluttabile di un destino di donna.

FAMIGLIA. Una famiglia a parte in cui «non ci vergogniamo di niente» è quella che si raccoglie intorno a Eduardo Scarpetta nel magnifico film di Mario Martone Qui rido io – in sala, andatelo a vedere. Mogli, amanti, figli e figlie, una folla al cui centro c’è il patriarca, attore comico, protagonista della scena napoletana, che in quegli inizi del Novecento, gli anni della Belle Époque, trionfa al botteghino col personaggio di Felice Sciaccamocca. La famiglia è anche la compagnia, l’impresa teatrale, la trasmissione di un’eredità – non solo in termini di ricchezze. Tra i figli di Scarpetta ci sono i De Filippo, Eduardo, Titina, Peppino, sul palcoscenico sono cresciuti, perché lì, come dice il piccolo Eduardo al fratellino che scappa c’è la nostra libertà. La «famiglia» diviene un universo nel quale prendono forma i nodi culturali e politici dell’Italia passata (e presente): i rapporti col femminile ostentato e umiliato, il ruolo degli intellettuali nella formazione di un’opinione e di una coscienza della propria epoca, il senso dell’arte e della critica, i rapporti tra cultura «alta» e «bassa». Un grandissimo film.

Di segno opposto la famiglia di Brizé in Un autre monde, classico antidoto alla corruzione dell’anima nel capitalismo e nel mercato globali contemporanei. A fronte di scelte che provocano disprezzo verso se stesso, il manager Vincent Lindon riscopre i «valori» (molto in crisi i suoi sull’orlo del divorzio) degli affetti famigliari.

RIMOZIONI. L’America di Paul Schrader nella figura di William Tell – Oscar Isaac – giocatore d’azzardo che ha racchiuso il suo passato di torturatore a Abu Ghraib da qualche parte nelle sue rituali ossessioni e nella ricerca disperata di espiazione alla sua colpa. La sua parabola e quella dei personaggi di The Card Counter racchiudono lucidamente quella di un Paese basato su debito e rimozione nel quale i grandi traumi rimangono non affrontati nella loro totalità. L’11 settembre e la sua commemorazione lo dichiarano.

Nella famiglia di fratelli del Montana, agli inizi del Novecento, la rimozione è il desiderio e la sessualità. Il fratello «incattivito» ha messo da parte la sua cultura scoprendo di essere gay, qualcosa di inaccettabile che ha subito rimosso con una nuova patina di esacerbata mascolinità. Ma tutti, anche coloro che ostentano una patina borghese e coltivata come il fratello e la sua nuova moglie inscenano qualcosa che è solo l’ipocrisia del rito sociale. The Power of the Dog di Jane Campion ne traccia le geometrie, fino alla detonazione, crudelmente implacabile.

LIBRI. Come abbiamo avuto modo di annotare sulle pagine di questo giornale, viviamo un momento di nuova fioritura nel rapporto tra letteratura e cinema: tre dei premi più prestigiosi nel palmarès sono andati ad adattamenti di opere di narrativa, quasi tutte scritte e adattate al femminile: Audrey Diwan da Annie Ernaux (Leone d’oro), Maggie Gyllenhaal da Elena Ferrante (premio Osella), Jane Campion da Thomas Savage (miglior regia).