The fact finder (BeccoGiallo), la prima opera narrativa di Alex Bodea, racconta di uno strano fenomeno ottico, gli Intrux, pennellate di nero che occultano piccole porzioni di realtà. Non si sa fin dove arriverà, per quanto continuerà, da cosa è causato. Il dato certo è che c’è un uomo capace di vedere al di là della coltre, Mr Hesus, il protagonista: ha scoperto questa sua abilità tramite un esercizio medico che, per combattere la vertigine, lo invita a concentrarsi su un dettaglio mettendo le mani a cannocchiale. Così, d’improvviso, Hesus scopre di contare qualcosa. Non se lo aspettava: è un uomo di mezza età, abita in terra straniera, parla con difficoltà la lingua d’adozione. È solo, stralunato, ipocondriaco, e viene trattato con sufficienza anche dalla sorella che, per tenerlo un po’ a bada, gli invia Alois, un androide di seconda mano. È questa coppia a girare la città, interrogandosi sulla natura del fenomeno ottico e scrivendo un blog che dà al protagonista l’impressione di essere aspettato ed ascoltato, almeno fino a quando il governo non mette a punto una app ufficiale che decodifichi gli Intrux, svelando ciò che nascondono.

I fili della storia ondeggiano tra il pubblico e il privato: da una parte la depressione e l’isolamento, dall’altro una società distratta e la capacità del potere di sfruttare qualsiasi occasione per creare propaganda. La relazione tra evento e personaggio fa da cornice e serve a dare forma narrativa al più ampio progetto di Bodea, che ci spiega: «il libro si basa sulla mia pratica di prendere appunti disegnati per strada. Sono delle scene compresse, come delle vignette. Hesus è nato dal desiderio di portare in un mondo diverso questi dettagli che ho osservato, in un luogo dove diventano assolutamente necessari perché sull’orlo dell’estinzione.» L’autrice dunque attinge alle sue numerosissime Visual notes, ne seleziona una cinquantina e le inserisce all’interno del fumetto.

Per quanto l’immagine di qualcuno che gira la città e prende appunti faccia pensare alla pratica giornalistica, quella di Bodea è un’estetica che rifugge l’oggettività, rivendicando anzi lo spazio del sentimento: attraverso il disegno, continua l’autrice, «posso mostrare non solo quello che vedo, ma anche quello che penso di quello che vedo.» Il tratto non mente, non è fotografico né realista, ma umoristico: «è una testimonianza, ma con licenza poetica. Abbiamo bisogno di fatti nudi e verità documentarie, ma dobbiamo anche essere consapevoli degli artifici e dei trucchi della realtà.»

The fact finder è il titolo del libro, del blog tenuto da Hesus e Alois, del profilo Instagram dell’autrice, del suo progetto espositivo: non c’è soluzione di continuità tra gli appunti e il fumetto. Nelle Visual notes dell’autrice ogni immagine isola un particolare che corrisponde a una storia da raccontare; allo stesso modo, ogni volta che rivela un Intrux Hesus racconta un aneddoto: diverse narrazioni minori si aggiungono così al racconto dell’evento storico e della condizione esistenziale del protagonista. In questo modo, Bodea costruisce la storia per quadretti che spesso ricordano la struttura della striscia comica.

La narrazione ne è condizionata e procede sincopata: è un libro piacevole e a tratti divertente, ma non è una lettura che fila liscia né cerca l’agio del lettore.
Le corrispondenze tra i progetti proseguono poi sul versante figurativo: il fumetto è caratterizzato da una linea piatta e sintetica. Questo, che nel lavoro sul campo corrisponde a una necessaria velocità di realizzazione, comporta una resa singolare: l’autrice sceglie di semplificare al massimo la struttura della pagina, mantenendo le vignette il più frequentemente possibile della stessa dimensione, così da evitare distrazioni. Questa ricercata monotonia si accompagna tanto all’assenza di profondità prospettica e plastica – alla base del disegno tramite ‘linea’ – quanto a delle sporcature estetiche e a delle sintesi estreme che, avvicinandosi all’astrazione, inceppano la fluidità narrativa. È una linea chiara espressionista: un ossimoro. D’altra parte, però, l’antitesi è la cifra del libro sin dalla copertina, dove la storia è definita «tragicommedia», e l’attrito che lo stile opera sul racconto è il segno di una volontà precisa, perché permette all’autrice di frenare lo sguardo del lettore e avvicinarlo ai dettagli.

Nel racconto, infatti, Bodea riesce a parlare del narcisismo, dell’emigrazione, dello spaesamento, della violenza verbale, ma al centro rimane il problema dello sguardo: che cosa fare quando le immagini si accumulano a migliaia, senza che vi si possa dedicare più di qualche secondo?

«Questa condizione mi rattrista, ed è per questo che ho costruito la mia opera cercando di rallentare un po’ le cose.» Bodea riesce nel suo intento grazie a uno stile coraggioso e a un personaggio marginale, antieroico, che proprio in quanto tale rimane fuori dal flusso sociale e produttivo, portando così in dote un ritmo lento e straniante.