Alessandro Vespignani, fisico di formazione, da quasi vent’anni vive e lavora in America; alla fine degli anni ’90 è passato dallo studio dei virus informatici a quelli biologici. Ha lottato contro Ebola in Congo, Zika in Sudamerica, la pandemia influenzale del 2009, la Sars. Ora fa parte del team della Casa Bianca che si occupa del coronavirus. Oltre a essere uno scienziato è un bravissimo comunicatore: ciò che continua a ripetere è che chiudere ha fatto bene; anche riaprire farebbe bene ma solo se c’è un’infrastruttura di controllo dell’epidemia. «Se riapriamo e siamo esattamente come eravamo a marzo – dice – allora l’epidemia ricomincia a galoppare. Bisogna testare, tracciare e trattare. Isolare i pazienti anche con sintomi lievi, creare ospedali covid separati».

 

Alessandro Vespignani

Questo schema non lo vedo implementato da nessuna parte, però mezzo mondo sta parlando di riapertura.

Negli ultimi tempi ogni volta che parlo dello schema di riapertura fa un certo scalpore, eppure a me sembra di ripetere sempre le solite cose, così come altri miei colleghi epidemiologi. Mi sento un disco rotto. Se tu hai un’epidemia con questo tasso di trasmissibilità e di asintomaticità, è normale chiudere le città per abbassare il numero di casi, però allo stesso momento dovresti porti il problema di come riaprire. Lo sai che non puoi tenere la gente in eterno chiusa in casa, ma se riapri e non hai creato le infrastrutture attorno in tre settimane sei a capo a dodici.

Non lo vedo nemmeno nelle situazione più virtuose, in Usa.

Qualcuno lo dice, hanno detto che vogliono fare più test, assumere più tracciatori, fanno più tamponi, più seriologia, stanno lavorando in qualche modo a questo piano, ma non hanno capito l’entità della crisi. Io credo che noi epidemiologi non siamo riusciti a spiegare che il fatto che questa prima ondata se sia scesa è perché ci siamo chiusi in casa. Appena ricominceremo a uscire l’epidemia ricrescerà. C’è bisogno di un approccio bellico e questo concetto non passa. C’è un aspetto ingenuo che fa dire “Riapriamo e vediamo che succede”. Succede che l’epidemia ricresce.

A New York vedo fare test, tracciare i contatti ma non, ad esempio, avere ospedali dedicati ai pazienti Covid. La nave che avrebbe dovuto provvedervi è andata via.

La nave è andata via perché alla fine non è stata usata: a New York si aspettavano l’invasione di morti. I morti sono stati tantissimi ma non quanti si pensava inizialmente ed è accaduto perché a New York sono stati bravi a gestire l’emergenza. Questo è il problema con le epidemie: se si gestisce bene l’emergenza e si evita la catastrofe, la percezione è che inizialmente si sia esagerato e la situazione non era così grave. Se la nave non è servita è perché abbiamo cambiato le cose. Quello che stiamo ripetendo ora è che se si torna piano piano, non dico alla normalità, ma alla metà della normalità, questa epidemia ricomincia. L’immagine della nave che lascia New York è il simbolo di questo approccio senza prospettiva. C’è bisogno di creare ospedali-Covid, a New York ne servirebbe almeno uno. Le persone con sintomi lievi non vanno rimandate a casa a infettare il resto del nucleo familiare. Si spendono miliardi al giorno, e non si possono prendere due alberghi per isolarli e assumere 400 persone per monitorarle?

C’è qualche Paese dove stanno applicando queste norme?

Si, Hong Kong, Corea, anche in Cina hanno fatto le degenze non domiciliari. Fa parte anche della dignità del paziente. Parliamo di una malattia che solo nominarla fa venire l’angoscia e tu lasci le persone insieme in un appartamento? Queste cose non si potevano fare nel momento del picco con migliaia di casi al giorno, ma neanche ora si può fare. In questi momenti, poi, con un tasso di disoccupazione al 15% assumere dei tracciatori avrebbe anche un senso economico. Io sono pieno di curriculum di persone che lavoravano per le compagnie high tech e che sono rimaste senza lavoro e che sarebbero in grado di fare il lavoro di tracciatori.

Ma la riapertura a macchia di leopardo di cui parla ad esempio il governatore dello Stato di New York Cuomo, nel riaprire gradualmente dove la situazione è sotto controllo?

Approfondirei il concetto di “sotto controllo”, se si basa sui casi che si trovano con i tamponi, allora voglio ricordare che il primo marzo a New York c’era un solo caso accertato, in realtà i casi erano 28mila. Sotto controllo è quando tracci tutti i casi e tutti quelli accertati sono isolati e monitorati, un numero di tamponi enormi. Tutte queste metriche non le vedo. Quotidianamente parlo con governatori, sindaci, politici, sono nella task force e si discute, anche nella parte politica ci sono soggetti molto bravi nella gestione emergenziale, ma quando si parla di pianificazione invece è come se si parlasse di qualcosa di intangibile e poco credibile. A febbraio avevamo già detto che negli Usa i casi identificati erano migliaia e non i pochi di cui si parlava, lo sapevano tutti, ma nessuno si prendeva la responsabilità di chiudere l’economia per qualcosa che non si vedeva. Noi spiegavano che il disastro sarebbe arrivato dopo tre settimane ma ha prevalso l’approccio dello “stiamo a vedere”, così come sta prevalendo ora. Politicamente è impossibile prendere decisioni che hanno un costo sociale enorme se non c’è l’emergenza, ma per evitare l’emergenza. Ci viene detto che guardiamo solo un lato del problema ignorando l’economia. Non diciamo questo. Bisogna affrontare questa guerra con un’economia di guerra. Dopo Pearl Harbor gli Usa costruivano un aereo ogni sei minuti, allora perché non costruire laboratori, assumere tracciatori, costruire un’economia che tenga conto della pandemia? Questo non passa. È l’incapacità di vedere l’invisibile. Ma non è un discorso americano, in Italia sta accadendo la stessa cosa, come in tutto l’Occidente. Non è accaduto in Asia per ragioni culturali e per il trauma pregresso della Sars. A marzo avevo spiegato al resto d’Europa che il problema sarebbe diventato loro in dieci giorni: ma tutti hanno ripetuto gli stessi errori. Una risposta che mi sono dato è che questo virus a livello di numeri colpisce gli anziani e noi come società siamo pronti a sacrificarli, se colpisse i bambini dopo i primi 4/5.000 morti ci sarebbero già le infrastrutture pronte.

Riguardo il tracciamento, lei che ha una formazione da ingegnere informatico. Quanto bisognerebbe concedere a livello di privacy alle app di tracciamento?

Bisogna che i dati vengano aggregati per rintracciare i focolai, quindi un po’ bisognerà concedere ma si può fare tracciamento del virus con le app in modo non troppo invasivo. Bisogna però accompagnare la app a un esercito di esseri umani, perché se la app ti dice che sei stato in contatto con il virus hai bisogno di qualcuno che si occupi di te, che ti porti la spesa, che mandi un certificato al tuo datore di lavoro, che venga a farti i test se sviluppi dei sintomi. Inoltre queste app servono ora, se le fanno tra 2 mesi sono inutili. C’è una sottovalutazione generale della velocità di questo virus che non lascia pause di riflessione.

Ma se la situazione è questa cosa possiamo fare?

Come cittadino se mi dicono che riapriamo in queste condizioni io mi chiudo in casa. Bisogna fare pressione sui politici perché affrontino questo virus per quello che è: una guerra mondiale.