Raccontare il tema dell’immigrazione dal punto di vista di chi affronta il lungo viaggio attraverso il mare non è così semplice, soprattutto se chi racconta sono bambini. Con dolcezza e comprensione lo sceneggiatore Alessandro Valenti in veste di regista mette in scena in Oltre il Confine, prodotto da Scirocco Film, il viaggio straordinario di due fratelli: la solitudine e l’incertezza dopo la morte della madre spinge Bekisisa e il piccolo Eno ad abbandonare il Senegal per raggiungere l’Italia e una nuova casa. Come tanti prima di loro i due fratelli devono affrontare un lungo cammino fatto di prove e sacrifici, incontri inaspettati, amici e promosse. Il film è un viaggio di formazione che attraverso la forma della fiaba e dal realismo magico riesce a dare voce e corpo all’esperienza di quei piccoli viaggiatori molto spesso dimenticati.

Osservando il film ci sono molti elementi che richiamano il tuo precedente lavoro «Babbo Natale», come nasce l’idea del film?
L’idea del film nasce dal corto Babbo Natale che ho scritto mentre insegnavo italiano ai ragazzi appena arrivati in Italia. Dopo che il corto ha vinto il premio MigrArti, ho capito che era necessario scrivere un lungo metraggio dedicato ai bambini, primo perché me lo hanno chiesto e secondo perché sentivo che questa era un’esigenza morale, un dovere. Ci sono storie che devono essere raccontate e uno degli aspetti che più mi colpisce della problematica dei migranti e che vengono considerati come dei mostri. Non c’è una biografia che li racconta, soprattutto non c’è una biografia dei bambini e considera che in Europa spariscono 5000 bambini l’anno; così mi sono detto:voglio raccontare il loro punto di vista che è sempre emotivo, a volte semplificato, immaginifico. In Babbo Natale ho cercato di trovare ispirazione da un punto di vista visivo per poi riportarlo in un lungometraggio e come hai notato ci sono degli elementi molto simili come la parte fantasiosa suggeritami dai bambini.

Come hai lavorato alla scrittura del film?
Il lavoro è durato quasi tre anni. È stato un film con un forte impatto sociale, se così si può dire. Per me fare cinema è legato anche a una dimensione politica, nel senso di costruire dei luoghi dove sperimentare delle relazioni e la prima cosa che ho cercato di fare è stato di costruire un rapporto personale con i bambini, di essere loro amico e mi sono reso conto che quando raccontano il loro viaggio riescono in qualche modo a distruggere il dolore tramite la fantasia, non raccontano solo gli aspetti negativi ma anche quelli positivi come se fosse un’avventura. Ho cercato di seguire e raccontare questo viaggio attraverso il loro punto di vista ed è stato molto complesso perché ho cercato di capire i loro pensieri e ogni volta che vedevo nella sceneggiatura qualche elemento legato a una dimensione adulta lo eliminavo. Ho vissuto per anni con questi bambini che adesso vivono con me e ho cercato di catturare quanto più possibile il loro immaginario per elevare la loro ferita a una dimensione fantasiosa, poetica.

Infatti, in entrambi i film si percepisce una dimensione magica in cui i protagonisti incontrano personaggi positivi, curiosi, pittoreschi.
L’immaginario dei bambini è molto diverso dal nostro, è pieno di magia e spiritualità, infatti, la protagonista parla con i defunti abbracciando gli alberi. Mi piaceva questa idea quasi panteistica che li sorregge; ed è lo spirito della madre che invia lo sciame di api ad aiutare i bambini. In Babbo Natale, invece, l’attore Andrea Simonetti è un ragazzo che fa uso di MDMA e spiega ai piccoli protagonisti che siamo tutti collegati. Sento che c’è una dimensione in cui tutto è collegato e rispettare la natura vuol dire volere bene anche agli esseri umani. Questa idea di rapporto tra l’ambiente e gli esseri umani è molto forte in Africa ed è anche per questo motivo che ho voluto indagare questa caratteristica.

Il film si apre in Africa, come avete lavorato in rapporto all’identità dei luoghi e dei personaggi rappresentati? Quali sono state le difficoltà?
Oltre a RAICinema e ARTE , abbiamo dovuto aspettare che entrasse nel progetto una casa di produzione francese perché in Italia non abbiamo molta consuetudine a girare nella zona dell’africa subsahariana e grazie alla produzione francese, Angelo Laudisa e Arte abbiamo trovato un produttore esecutivo senegalese che ci ha condotto e fatto conoscere dei luoghi che raccontassero la verità come il villaggio in cui abbiamo girato, dove i bambini devono fare venti chilometri al giorno per andare a prendere l’acqua. Uno degli aspetti che ho cercato di evitare era di indugiare sulla povertà e drammaticità di alcune situazioni presenti in Africa, perché rispetto alla dimensione dell’immaginario i bambini non vedono la povertà, per loro una capanna è un luogo bellissimo dove poter vivere; vanno via per l’assenza di acqua e non perché voglio abbandonare quel luogo. È sempre molto difficile raccontare con uno sguardo che non deve essere colonialista e andare in Africa mi è servito per semplificare il mio pensiero e renderlo il più possibile vicino a una cultura molto particolare e complessa da cui emerge un rapporto fortissimo con la natura e la dimensione magica. Ho cercato di mettermi a servizio del loro sguardo, mi è sembrato una forma di rispetto verso questi bambini.

Rispetto alla presenza nel film di tanti bambini di nazionalità diverse costretti a lavorare, i cattivi della storia sono dei personaggi legati all’esperienza del caporalato e alla sfruttamento dei minori?
Sì, assolutamente. Ovviamente è il caporalato raccontato dal punto di vista dei bambini e nel film corrisponde a Gigetto, un uomo cattivo che Bekisisa ha il coraggio di combattere per salvare gli altri bambini da questo elemento soffocante che è l’economia, i soldi. Ci sono tanti bambini in Italia che vivendo in povertà sono costretti a lavorare. Se ci pensi al di là di tutto, questa complessità si riduce al dominio economico e alla sicurezza legata alle politiche anti-migranti, quando invece la prima cosa devono essere l’accoglienza e gli esseri umani. A me sembra che il dibattito su questo tema abbia degli elementi quasi primitivi, noi contro di loro ed è una cosa assurda e rischiosa perché si mettono in discussione i diritti umani e i diritti umani o valgono per tutti o non valgono per nessuno.

Come avete lavorato sulle musiche?
Gabriele Rampino ha fatto un lavoro straordinario, nella sua semplicità c’è un grande studio in cui ha cercato di rendere le musiche all’altezza sia dell’immaginario infantile sia dell’immaginario africano. Tutta la musica è stata plasmata sulla voce della protagonista Mama che per un sacco di tempo ha seguito un corso di canto, mentre la ninna nanna tipicamente africana presente nel film rappresenta la dimensione magica in cui la madre morta continua a dialogare con Dio per affidargli la figlia durante il suo lungo viaggio. Nella cultura africana c’è un rapporto totale tra la dimensione spirituale e la musica che è come una preghiera.