C’è una poesia che forse più di tutte ospita quel senso di perdita che il moderno porta con sé, come suo emblema o cifra: è quel Cygne nel quale Baudelaire – ripartendo da un’immagine antica, dall’Andromaca piangente sulle sponde del Simoenta – si è ritratto come passante intriso della melancolie di luoghi ormai mutati o scomparsi, di quei faubourgs nei quali – mentre Parigi cambia – l’osservatore percepisce lo scorrere del tempo in un palazzo, in un’impalcatura. «Tout pour moi devient allegorie», scriveva Baudelaire. «Tutto si fa intanto allegoria»: quest’ultimo verso non si legge però in una delle molte versioni disponibili delle Fleurs du mal, ma fa da inserto prezioso – e mascherato, o semmai da ‘traduttore segreto’ – in una lirica di Alessandro Fo, «Ma giocare è molto difficilissimo», verso di taglio ironico e stavolta esplicitamente rubato a un altro poeta, Tiziano Rossi, a ulteriore conferma di una pratica di letteratura istintivamente au deuxième degré. Il testo compariva già in una sezione di Corpuscolo (Einaudi, 2004) che ora è parzialmente riproposta, e trova il suo luogo d’elezione, nell’ultimo lavoro di Fo, Mancanze (Einaudi «Collezione di poesia», pp. 128, euro 11,00).

Un titolo che è già, per sé, in quell’aura di perdita malinconica cui allude la pur esile traccia baudelariana (e basterebbe proseguire nella lettura della stessa poesia – il racconto di uno scippo – per avvertirne meglio la grana di ‘rifacimento postumo’: «il furto si abbina a cose che se ne vanno, / valori, e feticci futili / traslocati già nell’aldilà… La tua pena turbata / tracima in una mia»). E del resto eccolo altrove, l’io che si presenta sulla scena, muoversi proprio «per dissolvere un po’ di delusione / circoscrivendo la malinconia» e misurando una «sera / priva d’angeli o affetti», nella quale di nuovo la parola-chiave è una generale, cosmica «insufficienza». È lo stesso poeta e latinista – non dimentichiamoci fra l’altro della recente prova di Fo come traduttore dell’intera Eneide – a richiamare l’attenzione del lettore sul senso del titolo, e a svelare come il titolo originario del lavoro suonasse reliqua desiderantur (‘il resto manca’): espressione-chiosa, da editore o copista di testi antichi, se è vero che proprio la chiosa o la glossa benissimo si adatterebbero a descrivere, in estrema sintesi, la coltissima scrittura in versi di Fo. E il lettore, ancora, è tentato di sfruttare al massimo il breve autocommento che chiude il volume, in cerca di una sorta di fulminea autodefinizione o poetica-lampo. E forse può trovarla, almeno provvisoriamente, nella «lontananza» che Fo elegge a suo luogo prediletto. E poi soprattutto in quel suo far poesia «lavorando sui bordi»: glossando, appunto, gli altri, o fiorendoci attorno, come per i versi del coro dell’Edipo a Colono «tradotti da un amico» e citati al chiudersi di una delle riuscite più intense di Fo, «della nostra morte». O costruendo un’intera sequenza di testi-chiosa intorno a una preghiera come l’Ave Maria, sezionandola in brevi pericopi-titolo (piena di grazia-tu sei benedetta-fra le donne, ecc.). Ma anche il senso del divino – che gioca dunque parte non insignificante in questa raccolta – non è tanto ‘affrontato’ o guardato direttamente, ma piuttosto per speculum, come spiato da quegli stessi «bordi». Non affidandosi cioè – spiega ancora l’autore di questi versi – alla «devozione» o alla «riflessione teologica», ma «sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà», nel tentativo di cogliere «momenti alti, significativi e (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone».

Anche qui, dunque, le «cose parlano», diremo pensando al già citato poeta di Corpuscolo. E insieme sono le situazioni a parlare, o le voci degli altri, sempre cercando di «dire quel che non c’è», o forse non si vede. Persino l’organizzazione strutturale del libro – con riproposte di testi già pubblicati, o singoli frammenti tolti dall’insieme, come nella suite mariana ricordata – dice l’impossibilità dell’Intero, insomma l’Incompletezza del reale, l’Attesa-Desiderio di un resto. Sono molte le figure che, dentro questi versi, riportano a tale centralissimo nodo. A partire dal colloquio coi defunti, che trova uno dei momenti più alti in «Padre già quasi angelo», dove la figura paterna è rievocata anche grazie a Sant’Agostino – un altro degli amori antichi di Fo – e al suo «bicchiere d’acqua», in tratti di dolente e insieme sorridente affetto che qualcosa devono alla seconda maniera montaliana (vedi certi xenia per la moglie, o certa capacità di annacquare auctores e citazioni in lacerti di quotidianità frugale, con escursioni fra l’iper-culto e il botta e risposta del parlato). Ma anche altrove la protagonista è, magari metaforicamente, l’Assenza: vedi la seconda sezione del libro, «Il tono blu», dedicato interamente a Chopin, dove André Gide – autore di alcune Note su Chopin – è convocato in un suo colloquio con l’Abate di Montecassino, sorpreso nell’atto di leggere una partitura semplicemente «eseguendola in mente / …immaginando il suono», nella «gioia perfetta» dell’assenza stessa della musica: in un «silenzio» che potremmo dire grato, felice della propria stessa incompiutezza.

L’ultimo scorcio di Mancanze – «Figure d’angeli» – tematizza in modo se possibile ancora più chiaro questo aspetto di ricerca dell’Oltre, e insieme fa risuonare efficacemente tutte le corde di questa lira alessandrina. Come invitata dalla citazione – da Dante a Petrarca al maître Ripellino, in un sistema di «trame, di filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti», potremmo dire usando ancora un poco il Fo commentatore di se stesso – una realtà còlta come per caso o di passaggio, quasi distrattamente, lascia poi emergere – nel dettaglio apparentemente insignificante di una «coppetta di plastica rosa», o in un «hotel», o in un «sabato notte d’estate sul corso» – l’«angelo-donna», o altri eventi-talismani da opporre ai «pallidi nulla» del mondo: scie angeliche pronte anche a prendere la forma sparente di un «palloncino», o di un «incongruo pettirosso» che «ancora, tuttavia, / non si lascia afferrare». Pur bisognosa di infiniti semi antichi – da Agostino a Virgilio –, pur dentro una modernità che l’ha ormai ridotta a gesto estemporaneo – occasione relegata, appunto, al margine – questa poesia non si è insomma dimenticata della sua intima vocazione: dietro il suo aspetto primo, che è anche quello del gioco, continua seriamente a scommettere, con Hölderlin, di non aver bisogno di alcuna arma o astuzia, «finché la mancanza di Dio aiuta».