Cosa guardano in quei telefonini Alessandro e Pietro per tutto il tempo di Selfie? Forse il loro futuro. Riprendere se stessi per tutto il tempo potrebbe sembrare straniante, ma con il terzo in campo, il regista Agostino Ferrente, la storia si fa fluida e avvincente, rimette in discussione il concetto stesso di documentario, diventa ricerca teorica, spezza le regole della rappresentazione. Selfie da Berlino, al festival del cinema europeo di Lecce ora nelle sale, ricorda proprio il gesto dei cineasti che negli anni sessanta con la leggera 16mm uscivano per le strade a raccontare i coetanei metropolitani. Un gesto compulsivo universale si fa forma artistica, riflessione ma soprattutto film di grande divertimento per la spontaneità che si sente anche quando la si vorrebbe pilotare, per il trasporto emotivo che trasmette.

AGOSTINO FERRENTE potrebbe ancora continuare il sortilegio che ha messo in moto già a cominciare da Le cose belle (che firmava con Giovannni Piperno) ma dice di sentirsi un po’ spaventato da queste esperienze, quasi rubasse «l’anima» ai suoi protagonisti. L’occasione in questo caso è partito da un fatto di cronaca, dal desiderio di sentire il parere di due ragazzini sulla morte del loro amico Davide Bifolco, scambiato per un latitante e colpito da una pallottola delle forze dell’ordine nel Rione Traiano a Napoli nel 2014.

CON GRANDE destrezza Alessandro e Pietro forniti di cellulare si filmano in ogni situazione e insieme riprendono ambientazioni e fatti della vita quotidiana, con candore e insieme saggezza, humour, speranze e un po’ di rassegnazione filosofica, ma con la convinzione di aver fatto una giusta scelta di vita tenendosi lontani dalla malavita che li circonda. Quella morte ha fermato il tempo. Alessandro e Pietro risplendono di giovinezza, più che amici, sembrano due «adelfoi» di tradizione mediterranea, arrivati direttamente da testi classici. Pietro sembra soddisfatto dalla sua immagine, testimone per lo più silenzioso di ogni scena. Lui è sistemato, fa il garzone del bar, Alessandro, dal fisico appesantito, in quell’estate torrida ha deciso di non andare al mare con la madre e i fratelli ma di far compagnia all’amico e di iniziare una dieta. Ha interrotto la scuola perché la professoressa si ostinava a volere l’Infinito di Leopardi a memoria, ha frequentato la scuola per parrucchieri ma è ancora senza lavoro.

RINCORRONO tutti e due tenacemente la volontà di ritagliarsi un futuro diverso da quello che vedono intorno a loro con la consapevolezza dei limiti che già sono ben definiti («Io faccio o’ barista, tu «forse» fai o’ parrucchiere, ma che sordi vuoi fa’?»).
Nelle inquadrature allargate che permettono di vedere le ambientazioni circostanti, compaiono coetanei dal destino già segnato, presenze rapaci, occhi che vorrebbero farsi feroci nella loro infantile sorpresa. Sono loro stessi a «intervistare» i coetanei, domande che ricordano la temperatura emotiva dei Comizi d’amore: bambine già strutturate nel loro destino di mogli di carcerati di cui hanno già introiettato le regole, ragazzini per cui «o kalascnicòf» non ha segreti, o almeno così credono.
«Invece di raccontare tutto quello che già si sa di Napoli ho voluto inquadrare gli occhi di chi guarda, dice Ferrente, inquadrare il dito invece che la luna».