Accolte dal prodigioso faro a tre piani alto centotrentacinque metri e sormontato dalla statua di Zeus, una delle sette meraviglie del mondo antico, le navi riparavano nel porto di Alessandria dopo essere scampate ai pericoli del mare. Nel III secolo a.C., tuttavia, i naviganti giunti nella capitale dell’Egitto ellenizzato dovevano affrontare anche le insidie provenienti dal Bruchion, quartiere dove Tolomeo I Soter aveva promosso la nascita di una biblioteca universale, assurta al fervido splendore della sapienza con Tolomeo II Filadelfo.
Un aneddoto riportato da Galeno riferisce infatti che tutte le navi di passaggio ad Alessandria avevano l’obbligo di dichiarare i libri trasportati e di consegnarli al Mousèion, consesso di eruditi delle più svariate discipline strettamente legato alla Biblioteca. Nella «gabbia delle Muse», luogo in cui gli «scarabocchiatori» libreschi citati da Timone di Fliunte si «beccavano» eternamente liberando dagli orpelli i poemi omerici, i volumi sottratti ai viaggiatori venivano trascritti su rotoli intonsi di papiro e archiviati con la sigla «dalle navi».

RARAMENTE GLI ORIGINALI ritrovavano il ritmo dell’onda. In un simile raggiro – racconta ancora Galeno – caddero gli Ateniesi quando inviarono ad Alessandria i testi ufficiali di Sofocle, Eschilo ed Euripide. Ai piedi dell’Acropoli tornarono copie spoglie della grazia primigenia e i quindici talenti d’argento versati come pegno del «prestito librario» saldarono l’inganno. D’altronde, una sfrenata ambizione al prestigio culturale della dinastia nonché al controllo «spirituale» dell’eclettica popolazione egiziana caratterizzò fin dal principio la strategia dei Lagidi.
Demiurgo della Biblioteca fu l’esule Demetrio Falereo, che era stato allievo di Teofrasto e dalla Scuola aristotelica trasse ispirazione. A lui venne affidato l’incarico di raccogliere i libri di tutti i popoli della terra. Sovrani e governanti ricevettero l’invito a convogliare ad Alessandria le opere di «poeti e prosatori, retori e sofisti, medici e indovini, storici e tutti gli altri ancora». Allo scopo di accrescere la collezione e rafforzare la propaganda politica dei Tolomei, Demetrio favorì la traduzione in greco della legge giudaica. Come tramanda la Lettera di Aristea, il sommo sacerdote di Gerusalemme Eleazar mandò ad Alessandria settantadue eruditi ebrei. Relegati nell’isola di Faro, in settantadue giorni, ognuno di essi fornì un’identica traduzione dell’Antico Testamento. Un’impresa memorabile ma non certo unica nella Biblioteca, visto che la trasposizione in greco dei testi iranici attribuiti a Zoroastro e composti da oltre due milioni di versi impressionò lungamente i posteri.
Alcuni studiosi ipotizzano che a metà del I secolo a.C., nella città a forma di clamide fondata da Alessandro Magno, libri e navi dei Tolomei condivisero un identico destino. Nel 48 a.C., allorquando Cesare si trovava ad Alessandria dopo aver sconfitto Pompeo a Farsalo, un incendio appiccato dagli uomini del dittatore divampò nel porto e coinvolse le imbarcazioni precedentemente inviate da Cleopatra VII in sostegno di Pompeo. È questo l’episodio nel quale l’immaginario collettivo – alimentato dal fatale incontro tra la seducente regina orientale, scivolata come un tappeto da un sacco di lino, e Cesare – colloca la distruzione della Biblioteca, alla testa della quale si alternarono personaggi quali Zenodoto, Eratostene e Aristarco.

IN REALTÀ, l’unica notizia sulle dinamiche del rogo risale a Lucano. Il poeta, dopo aver descritto la pioggia di fiaccole imbevute di pece cadute dalla reggia verso il mare, narra che le fiamme si propagarono, sospinte dal vento, negli edifici attigui alla zona portuale. Dione Cassio e Orosio specificano che il fuoco raggiunse gli arsenali e i magazzini «del grano e dei libri». Entrambi, come del resto anche Lucano, si rifanno a Tito Livio. Ma Cesare, che nel Bellum Civile ricorda l’incendio delle navi, non accenna alla distruzione di libri. Dal canto suo, l’anonimo autore del Bellum Alexandrinum afferma che la capitale egiziana era costruita prevalentemente con materiali ignifughi.
In un appassionante saggio del 2009 pensato quasi come un noir (La biblioteca scomparsa, Sellerio), Luciano Canfora esclude che i depositi del Museo si trovassero fuori dalla reggia. Se così fosse stato, arguisce il filologo e storico barese, Orosio non avrebbe mai detto che circa quarantamila rotoli di ottima qualità giacevano lì «per caso». Verosimilmente, si trattava dunque di prodotti confezionati dai «disinvolti librai» di Alessandria a beneficio di pretenziose e coltissime metropoli estere. Ma dove si trovava allora la biblioteca? La risposta sconfessa la sparizione totale dell’edificio nell’incendio cesariano, seppellendo una fine mitica e «cinematografica» sotto il peso di moderne considerazioni topografiche.

A DISPETTO della mancanza di resti archeologici pertinenti al monumento e delle congetture posticce sulla vicinanza della biblioteca al porto, è ragionevole pensare che essa fosse ubicata all’interno del Museo e questo, a sua volta, dentro la reggia. Strabone, nel suo resoconto del viaggio in Egitto, non indica – tra gli edifici costituenti il Museo – una struttura a sé per la biblioteca. Anche il filologo bizantino Tzetzes, nel De comoedia, la pone all’interno del palazzo reale, in opposizione a quella del Serapeo. P.M. Fraser, nel fondamentale volume del 1972 Ptolemaic Alexandria si spinge fino ad asserire che la cosiddetta Biblioteca fosse in realtà l’insieme degli scaffali siti nei locali del Museo. Quest’ultimo, almeno come istituzione, sopravvisse fino all’epoca del matematico e astrologo Teone (IV secolo d.C.), padre della «ribelle» Ipazia mentre la biblioteca subì significative devastazioni un secolo prima, durante gli scontri tra Zenobia e Aureliano.
Il fuoco ritorna, come elemento punitivo e purificatore, in una notizia – riportata da una fonte araba del XIII secolo, forse manipolata nella traduzione latina di Bar Hebraeus – che indicherebbe nell’emiro ‘Amr ibn al-‘As l’esecutore materiale della distruzione dei volumi un tempo catalogati da Callimaco e utilizzati, nel 642 d.C. come combustibile nei bagni pubblici di Alessandria per volere del califfo Omar ibn al-Khattab.

TALE TEORIA è stata al centro di una disputa ideologica, oltre che filologica. Ismaïl Serageldin, già direttore della nuova Biblioteca Alexandrina, idealmente sorta sulle ceneri di quella tolemaica e inaugurata nel 2002 nel quadro di un dispendioso progetto patrocinato dall’Unesco, ritiene infatti che attribuire le colpe agli arabi sia un vezzo occidentale. La mastodontica costruzione che si affaccia sul Mediterraneo, simbolo dell’opulento regime di Mubarak, è stata oggetto di attacchi sia durante la rivoluzione del 2011 che nel 2013, quando i deposti Fratelli Musulmani «firmarono» sulla sua facciata alcuni graffiti contro Al-Sisi. Di questo enorme polo culturale – che alloggia sei biblioteche specializzate, quattro musei e un planetario – resta incompiuto il dichiarato afflato di pace universale, che vorrebbe esplicarsi, oggi come ieri, nella pluralità delle lingue incise nell’architettura progettata dallo studio norvegese Snøhetta. In un paese in cui le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, dove lo studente Patrick Zaki si trova in carcere dallo scorso febbraio mentre la morte per tortura del giovane ricercatore Giulio Regeni è senza giustizia dal 2016, l’eco dell’antica biblioteca è sempre più lontana.