Quando la danza racconta la vita. Ci piace introdurre così il ritorno in Italia di Alessandra Ferri, tragedienne del balletto di repertorio come della danza di oggi, artista 53enne, tornata alle scene nel 2013 dopo averle lasciate per sei anni, che ha festeggiato il Capodanno al Teatro alla Scala commovendo il pubblico in un’indimenticabile Giulietta (vedi recensione). Ora è già a Londra per il riallestimento al Royal Ballet dal 21 gennaio di Woolf Works di Wayne McGregor (Olivier Award 2015 for Best New Dance Production e per Ferri Olivier Award for Outstanding Achievement in Dance) che sarà anche in tutta Italia al cinema in diretta dal Covent Garden l’8 febbraio (distribuzione Nexo Digital). L’abbiamo sentita da Londra a ridosso del successo scaligero.

Giulietta fa parte della tua storia. Come è stato ritrovarla oggi?

Giulietta non mi ha mai abbandonato, certamente è cambiata negli anni. Io avanzo nell’età e devo affrontare nel balletto una ragazza di quattordici anni. Non posso rincorrerla, l’ho ritrovata attraverso la fragilità, che appartiene anche alla giovinezza. Man mano che il balletto procede però, Giulietta cambia, cresce: mai come ora, nel terzo atto ho sentito in lei una forza incredibile, conquistata nel tempo. Quando mi hanno chiesto all’American Ballet Theatre di New York di ridanzare Giulietta ero molto titubante. Sto vivendo un momento nuovo e voglio andare avanti con cose diverse, non avevo intenzione di riproporre ruoli della mia carriera passata. Ma poi ho accettato e l’ho danzata a New York, Seoul e ora alla Scala. Ne conosco ogni sfumatura, in ogni gesto entro con l’espressione: quello che adoro di MacMillan è che con la sua coreografia nulla mai è solo un passo.

Woolf Works. Alessandra Ferri. © ROH, 2015 Tristram Kenton
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Nella tua interpretazione, come nella tua partnership con Herman Cornejo, colpisce una grande naturalezza, un approccio interiore al personaggio. Che consiglio daresti a un giovane che si affaccia alla professione?

I ballerini tendono «a fare il ballerino» in scena. Bisogna invece essere se stessi, potersi dimenticare i passi per essere persone, uomini e donne che invece di esprimersi parlando o scrivendo, lo fanno danzando, essere attori. Di un attore dici che è bravo quando non senti la recitazione. Arrivare a danzare senza far vedere la danza.

A Londra torni in scena con «Woolf Works», la creazione di Wayne McGregor, nata su di te l’anno scorso. McGregor è uno dei coreografi contemporanei più elettrizzanti per creatività. Come è andata?

Un’esperienza di straordinaria energia. Wayne viene da un’idea di danza diversa dalla mia, ma quando abbiamo iniziato questo lavoro mi ha detto, «io ho bisogno di un’anima». Mi sono completamente affidata a lui. Con Wayne abbiamo montato tutto insieme, non sapevamo dove sarebbero finite le sequenze che però a un certo punto gli si rivelavano finendo al posto giusto. E anche a me il percorso si è svelato sorprendendomi. Wayne non racconta una storia in modo canonico, entra nella psiche dei personaggi e coglie l’essenza del momento. Non è mentalmente processabile quello che guardi, ma senti quello che accade. Il balletto fa riferimento a tre grandi romanzi di Virginia Woolf, Mrs Dalloway, Orlando, The Waves, e con Wayne tutto si intreccia. L’autrice del resto è sempre presente nei suoi romanzi, io sono Virginia ma anche Mrs Dalloway, e quando alla fine Woolf si uccide nelle acque che la portano via, ne hai percepito il suicidio senza che Wayne te lo abbia fatto vedere.

McGregor ha studiato approfonditamente il rapporto tra creazione e movimento, lavorando anche sulla neuroscienza. Come lo racconteresti?

È un uomo di grande intelligenza, ha una mente cristallina, però quello che più mi colpisce è il suo istinto affascinante, non mentale, che viene dal cuore. Tecnicamente destruttura alcune regole classiche, i suoi movimenti partono da parti del corpo da cui normalmente non iniziano, dalla testa, da una spalla… Il tuo corpo a volte è perso, non riesci più a parlare finché non impari questa nuova lingua.

53 anni, Giulietta, ora Virginia Woolf, riprenderai ad Amburgo Duse di Neumeier, rifarai Onegin di Cranko a New York. La danza non ha età?

Sarebbe sbagliato e pericoloso dire che tutti devono andare avanti a ballare oltre l’età in cui di solito si smette. Il discorso da fare è un altro. Penso a un artista come Baryshnikov, senza tempo. Non bisogna generalizzare. Sta all’individuo trovare il proprio spirito. Qualcosa che non ha nulla a che fare con l’ego, con la ricerca degli applausi, della fama, con l’esibizionismo, ma con il proprio personale percorso di vita.