Il dolore di Aleppo non si attenua: le truppe russe entrate nella zona est, appena ripresa dopo l’evacuazione dei miliziani anti-Assad, hanno trovato fosse comuni e cadaveri con segni di torture e mutilazioni, fa sapere il Ministero della Difesa di Mosca.

Sotto accusa le milizie armate che per mesi hanno assediato dall’interno i quartieri orientali, stretti da fuori dal governo.

Ma con la battaglia alle spalle, i festeggiamenti nelle strade e i quartieri est svuotati, simbolo delle fratture interne che devastano la Siria, la guerra si sposta. O meglio si riaccende dove sopita non lo è stata mai. Due le comunità che rappresentano più di altre l’immediato futuro siriano (e il ruolo turco): al-Bab e Idlib.

Nel nord del paese, al-Bab è occupata dallo Stato Islamico e target dell’operazione “Scudo dell’Eufrate” lanciata da Ankara a fine agosto insieme all’Esercito Libero Siriano. A 40 km da Aleppo, altrettanti dal confine turco, a metà strada tra il cantone kurdo di Afrin a ovest e la città liberata dalle Ypg di Manbij a est, è strategica.

La Turchia vuole al-Bab perché con una sola comunità, dopo Jarabulus poco più a nord, spezza definitivamente l’unità della kurda Rojava. E la vuole perché crea de facto la zona cuscinetto che ha ossessivamente cercato di ottenere dall’Occidente, dove infilare rifugiati siriani – due milioni e mezzo quelli in territorio turco – e miliziani da usare in chiave anti-kurda.

Per farlo va a caccia di sostegno internazionale: «Per la nostra operazione ad al-Bab – ha detto ieri il portavoce della presidenza Kalin – la coalizione internazionale dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, in particolare per quanto riguarda il supporto aereo». Perché, ufficialmente, è stata lanciata per costringere l’Isis alla ritirata. Nei giorni scorsi Ankara ha dispiegato lungo la frontiera altre 500 truppe di unità d’élite e 10 unità di artiglieria pesante.

Non cita, però, i massacri di civili: secondo fonti locali, tra il 22 e il 23 dicembre 93 persone (21 bambini) sono state uccise in raid turchi ad Al-Bab. Morti a cui si aggiungono quelle per mano dello Stato Islamico: l’agenzia di Stato turca Anadolu riportava ieri di 30 civili massacrati dagli islamisti mentre tentavano la fuga. Più o meno la stessa sorte toccata a tre uomini uccisi dai militari turchi il 25 dicembre mentre passavano la frontiera.

Una strage dietro l’altra che riducono al lumicino le speranze di una soluzione politica: gli interessi esterni dettano le agende di chi combatte sul campo. Erdogan ha già spostato l’asticella: dando la battaglia per al-Bab agli sgoccioli, ha preannunciato la marcia su Manbij, sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane sostenute dagli Stati Uniti.

Più a sud, a Idlib, si apre un nuovo fronte. I jet da guerra russi hanno colpito sabato comunità del governatorato nord-occidentale quasi del tutto in mano ai qaedisti dell’ex al-Nusra e destinazione delle migliaia di miliziani islamisti evacuati da Aleppo. Un bubbone jihadista pronto ad esplodere, in grado di ricompattare i gruppi anti-Assad e promuovere azioni sia nel distretto che fuori.

Nei giorni della tregua di Aleppo, in molti si chiedevano cosa sarebbe accaduto dopo, se la Russia avrebbe lanciato immediatamente operazioni contro Idlib. I dubbi erano figli del ruolo – di nuovo – della Turchia, principale sponsor di numerose milizie trasferite con la forza nell’enclave qaedista: dopo il riavvicinamento ad Ankara e il ruolo di mediatore svolto dai turchi nell’evacuazione, si immaginava che Putin avrebbe aspettato prima di ordinare l’assalto finale.

E forse aspetterà: gli otto raid di sabato contro Binish, Saraqeb e Jisr al-Shaqour potrebbero essere messaggi alle opposizioni ma non il lancio di un’operazione imminente, che richiederà forze ancora maggiori di quelle dispiegate ad Aleppo e un passo indietro della Turchia.

La guerra non è terminata: tante restano le sacche di miliziani in tutto il paese, in particolare intorno a Damasco e a sud. Ieri l’agenzia siriana Enab riportava di un accordo tra governo e opposizioni a al-Sanamin nella provincia di Daraa: i miliziani si sono arresi, segno – dice l’agenzia – di una possibile evacuazione dall’intero distretto.